Arte della guerra nel Rinascimento

Esempi di ricette di polvere da sparo all’ombra del Palazzo Ducale di Urbino*[1]

Enrico Gamba

Centro Interdipartimentale di Studi Urbino e la Prospettiva

Davide Pietrini

Università degli Studi di Urbino

Indice

Federico da Montefeltro e l’arte della guerra
Le armi da fuoco nel Rinascimento
Esempi di ricette di polvere da sparo
Dal Rinascimento ai giorni nostri. Alcune valutazioni sull’arte della guerra

Abstract: The essay analyses the theme of the art of war in the Renaissance with a multidisciplinary approach, paying particular attention to the diversity of firearms and to the methods of preparing gunpowder, both described by Francesco di Giorgio Martini.

Keywords: polvere da sparo; Francesco di Giorgio Martini; arte della guerra; Rinascimento; formelle

Federico da Montefeltro e l’arte della guerra

Nel 2022 si sono celebrati i seicento anni dalla nascita del Duca urbinate Federico da Montefeltro (1422-1482). Federico da Montefeltro, prima di essere Duca e mecenate, era un condottiero militare: bocche di fuoco, cannoni e bombarde erano strumenti che conosceva benissimo e che sapeva impiegare in battaglia molto bene. Già negli assedi di Fano e Volterra, Federico aveva unito le sue competenze da stratega militare alla forza delle armi da fuoco. Queste nuove armi, che avevano fatto il loro ingresso nella scena bellica europea nel Trecento, utilizzavano la forza propulsiva della polvere da sparo, al tempo chiamata polvere pirica. Essa è una miscela chimica esplosiva fatta di salnitro, zolfo e carbone. Nel Rinascimento non esisteva una ricetta unica per realizzare questa particolare polvere. Ad esempio, le proporzioni dei tre componenti fondamentali variavano a seconda di numerosi fattori, tra le quali la forza propulsiva di cui si aveva bisogno e l’umidità atmosferica. Inoltre, come si evince dai trattati militari dell’epoca, alla composizione standard venivano anche aggiunti ulteriori elementi, che a noi possono sembrare a dir poco fantasiosi. In ogni caso, la padronanza di queste ricette era necessariamente parte del bagaglio culturale degli esperti di arte militare dell’epoca.[2]

Federico da Montefeltro era probabilmente a conoscenza della letteratura sul tema. D’altronde era di suo interesse realizzare il più correttamente possibile e nel modo più opportuno la polvere da sparo, in modo da far funzionare al meglio la sua artiglieria. Strategia militare e conoscenze tecniche erano alla base della sua concezione di arte della guerra: quell’arte che Federico volle rappresentare sulla facciata del Palazzo Ducale di Urbino tra gli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento. In questo lasso di tempo furono scolpite sulla spalliera del Palazzo 72 bassorilievi in pietra, le cosiddette formelle, raffiguranti macchine di guerra e di pace, artiglierie, armamenti e trofei. Questa mostra a cielo aperto, ideata da Federico da Montefeltro e in gran parte realizzata sotto la supervisione dell’architetto senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1502), è attualmente conosciuta come fregio dell’arte della guerra. Tale esposizione simbolico-celebrativa della guerra rappresenta il legame che allora si stava velocemente delineando tra potere, scienza e tecnica. Tra i congegni rappresentati, ci sono bombarde, spingarde, cannoni o altre macchine da fuoco, come la famosa, quanto portentosa, macchina arabica (Figura 1, formella n. 13).[3] Quest’ultima formella rappresenta una macchina da guerra all’insegna del verosimile. D’altronde sono numerosi i disegni del tempo che ritraggono macchine fantasiose e incredibili, segno che spesso l’immaginazione e la voglia di stupire il committente e i colleghi architetti fossero ben più importanti della realizzabilità pratica delle invenzioni.

Attualmente i bassorilievi realizzati sotto l’egida di Federico da Montefeltro, insieme ad altri bassorilievi ottocenteschi, sono conservati in una sala al piano terra del Palazzo Ducale di Urbino della Galleria Nazionale delle Marche (un occhio attento noterà che le formelle rinascimentali sono 71 e non 72, in quanto una formella è andata distrutta probabilmente nel 1756, durante il distacco dalla spalliera esterna).

Figura 1. Formella n. 13 (G. Bernini Pezzini, Il fregio dell'arte della guerra nel Palazzo ducale di Urbino. Catalogo dei rilievi, op. cit., p. 85)

Le armi da fuoco nel Rinascimento

L’arma da fuoco si inseriva in un quadro geopolitico estremamente fragile e instabile, dove spesso gli scontri avvenivano per futili motivi. Inizialmente le armi da fuoco influirono in maniera molto marginale sullo svolgimento delle guerre. Rispetto alle silenziose armi da lancio medievali, il vantaggio delle armi da fuoco era soprattutto scenografico e psicologico: il boato, il fuoco e il fumo esaltavano gli assalitori e spaventavano i difensori.[4]

Le bocche da fuoco, chiamate generalmente cannoni, avevano un nome diverso a seconda dei calibri e delle forme. Le prime bocche da fuoco erano chiamate bombarde. Per bombarda si intendeva una bocca da fuoco generalmente di grosso calibro e di limitata lunghezza. Essa era costruita in ferro o in bronzo e sparava proiettili di pietra. La bombarda più grande arrivava a pesare anche 19 tonnellate e per trainarla occorrevano 60 buoi. Questa veniva caricata con proiettili sferici di pietra che pesavano intorno ai 100 kg. È facile pensare che non fosse semplice spostare queste enormi armi durante la preparazione delle campagne militari e le offensive belliche. Gli informati del tempo dicono inoltre che le bombarde di grandi dimensioni dopo aver sparato tre colpi andavano in frantumi e che, quindi, fosse necessario sparare un colpo ogni tre ore per farle raffreddare. Un altro esempio di artiglieria è il passavolante: una bocca di fuoco di piccolo calibro a lunga gittata che sparava proiettili in ferro. Il vantaggio di questa tipologia di arma è che aveva lo stesso effetto distruttivo delle altre con calibro più grosso.

Uno dei più importanti architetti militari del tempo era senza dubbio Francesco di Giorgio Martini, il quale alla corte urbinate di Federico da Montefeltro raggiunse il massimo della notorietà grazie ai suoi lavori alle fortezze nel Ducato. Nella versione del Trattato di architettura civile e militare del codice Magliabechiano II. I. 141 (conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) Francesco di Giorgio Martini presenta un elenco dettagliato dei tipi di bombarde, affinché la conoscenza di queste potesse essere utile per progettare edifici e sistemi di difesa (Figura 2).

Figura 2. Codice Magliabechiano II. I. 141, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, op. cit., tavole non numerate, f. 48 tav. 241

Francesco di Giorgio ricorda che la Bombarda comune ha una lunghezza di circa 15-20 piedi (5-7 m) e che la pietra pesa circa 300 libbre (100 kg); il Mortaro diritto o campanuto è lungo circa 5-6 piedi (2 m) e la pietra pesa 200-300 libbre (circa 67-100 kg); il Comune o Mezzana è lungo circa 10 piedi (3,5 m) e la pietra pesa circa 50 libbre (17 kg); la Cortana ha una lunghezza di circa 8 piedi (3 m) con la coda di circa 4 piedi (1,5 m) e la pietra pesa circa 70-100 libbre (23-30 kg); il Passavolante è lungo circa 18 piedi (6 m) e la pietra (con una parte in ferro) pesa circa 16 libbre (5 kg); il Basalisco è lungo cica 22-25 piedi (8 m) e la pietra di metallo pesa circa 20 libbre (7 kg); la Cerbottana è lunga circa 8-10 piedi (3,5 m) e la pietra di piombo pesa circa 2-3 libbre (0,6-1 kg); la Spingarda è lunga circa 8 piedi (3 m) e la palla pesa circa 10-15 libbre (3-5 kg); l’Arco Buso è lungo circa 3-4 piedi (1,5 m) e la palla (di piombo) pesa 6 once (circa 0,18 kg); lo Scoppietto è invece lungo circa 2-5 piedi (1-1,5 m) e la pallotta (di piombo) pesa circa 4-6 dramme (0,0072-0, 0108 kg).[5]

Esempi di ricette di polvere da sparo

Alcune bocche da fuoco sono le protagoniste delle già citate formelle del fregio dell’arte della guerra (come nel caso delle formelle n. 20, n. 22, n. 30 e n. 37). Una delle più interessanti è la formella n. 55 (Figura 3). Quest’ultima rappresenta al centro una bombarda con accanto un barile di polvere da sparo, mentre in basso a sinistra possiamo notare una “cucchiara” per il caricamento della polvere.

Figura 3. Formella n. 55 (Bernini Pezzini, Il fregio dell'arte della guerra nel Palazzo ducale di Urbino. Catalogo dei rilievi, op. cit., p. 183)

È chiaro che un elemento essenziale per la riuscita di una campagna militare con armi da fuoco era l’impiego ottimale della polvere. La polvere pirica, chiamata anche polvere nera, è una miscela di carbone, zolfo e nitrato di potassio o salnitro. Questi elementi potevano essere ottenuti secondo diverse modalità. Lo zolfo c’era in abbondanza nella miniera di Perticara di Novafeltria, situata in provincia di Rimini,[6] il carbone veniva prodotto dal legno di salice con un procedimento analogo a quello della carbonella,[7] mentre il nitrato di potassio era ottenuto da ammassi di terriccio mescolati a residui organici, letame e urina.[8]

Ora sappiamo che per ottenere una buona polvere da sparo è necessario che gli elementi siano nelle giuste proporzioni: il carbone 15 per cento, il nitrato di potassio o salnitro (KNO3) 75 per cento e lo zolfo 10 per cento. Lo zolfo e il carbone fungono da combustibile, invece il salnitro è il comburente. La polvere per esplodere deve entrare in contatto con una fiamma o con una fonte di calore, è sufficiente anche una piccola scintilla.[9] Prima non si possedevano queste conoscenze e al tempo non era facile realizzare una buona polvere da sparo. Si procedeva per tentativi e, soprattutto, ci si affidava alle conoscenze alchemiche, ovvero alla chimica di allora. Anche se spesso i metodi di preparazione erano diversi tra loro, in generale essi avevano in comune alcuni inevitabili passaggi. Il carbone veniva triturato all’interno di mortai; una volta polverizzato, si aggiungevano gli altri componenti (zolfo e salnitro) e si continuava a pestare fino ad ottenere una miscela il più omogenea possibile. La mistura poi veniva bagnata per ottenere composti più stabili e più efficaci. Quindi, la polvere nera veniva modellata in pani e lasciata seccare, fino alla perdita totale di acqua. Questo accorgimento era necessario per far fronte a un salnitro che all’epoca era prevalentemente disponibile nelle sue forme impure e più igroscopiche (come il salnitro costituito da nitrato di sodio – NaNO3 – o il salnitro costituito da nitrato di calcio – Ca(NO3)2). Per purificare il salnitro, nel 1606 l’ingegnere Luigi Colliado suggeriva di metterlo sopra una brace di fuoco per eliminare le impurità e per far fuoriuscire l’acqua.[10] Nel tempo ci si accorse che se il composto fosse rimasto in grani, anziché polverizzato, allora si sarebbe potuto controllare meglio la velocità di combustione della polvere, avendo così dei vantaggi nella fase di detonazione.

La polvere da sparo aveva fatto la sua comparsa probabilmente in Cina tra il 900 d.C. e 1100 d.C. ed era utilizzata principalmente per feste e scopi religiosi. Tuttavia, ben presto si intuirono le possibilità di applicazioni in ambito prima civile e poi militare. Il passo dalle feste alle guerre fu breve. Con rapidità la fabbricazione e l’utilizzo della polvere da sparo arrivarono in Occidente, grazie soprattutto alle attività mercantili che rendevano estremamente facili i contatti del mondo cinese con quello arabo, e di quello arabo con l’Occidente.

Nella versione del Trattato di architettura civile e militare del codice Senese S. IV. 4 (conservato presso la Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena), Francesco di Giorgio Martini inserisce una parte in cui si dilunga sia sulla composizione della polvere pirica, che deve essere modulata a seconda del tipo di bombarda, sia sul modo di conservarla. La corretta composizione della polvere era rilevante affinché l’arma da fuoco potesse svolgere efficacemente il suo compito. Per questo motivo Francesco di Giorgio elenca le proporzioni che devono esserci tra la quantità della polvere da sparo e il peso del proiettile. Ad esempio, ogni 100 libre di pietra si devono impiegare 16 libre di polvere da sparo:[11]

Per le ragioni antidette è conveniente trattare delle polveri, diverse secondo che varie forme di bombarde si trovano. Per questo è da sapere che la polvere da bombarda o mortaro che porti pietra da libre 250 in su, ricerca 7 parti di nitro, 4 di zolfo [e] 2 di carbone a peso. La polvere per altre bombarde minori, mortari, cortane, comune, mezzane o spingarde, richiede 4 di nitro, 2 di zolfo et una di carbone. Per li passavolanti, cerbottane et archibusi 8 di nitro, 3 di zolfo e 2 di carbone; per li scoppietti 14 di nitro, 3 di zolfo e 3 di carbone. […] La polvere eziandio con arte e si può lungo tempo preservare in questa forma: piglisi aceto fortissimo e c[h]iaro e con esso si facci pasta della polvere, dipoi se ne facci pani dalle quattro alle otto libbre, et all’ombra si faccino disseccare, overo non possendo al sole o nel forno, et in questo modo si manterrà nella sua prima perfezione non piccolo tempo.[12]

Nella versione saluzziana (Torinese Saluzziano 148, conservato presso la Biblioteca Reale di Torino) del Trattato di architettura civile e militare, Francesco di Giorgio precisa come devono essere fatte le bombarde per resistere all’impeto dell’esplosione. L’architetto senese suggerisce il ferro o il rame come materiali adatti alla costruzione, perché sono più resistenti del bronzo.[13]

Da buon architetto militare, Francesco di Giorgio sa bene che il dosaggio dei componenti della polvere pirica è in grado di condizionare l’efficacia delle bombarde e, quindi, può influenzare la capacità di difendersi dal nemico o di vincere la guerra. In appendice al Trattato di architettura civile e militare nella versione saluzziana, Francesco di Giorgio inserisce una sua libera traduzione di Liber ignium ad comburendos hostes di Marco Greco, un testo molto importante in cui vengono descritte le “ricette” per produrre la polvere da sparo.[14] Benché attualmente sappiamo pochissimo della vita di questo autore, è noto che questa operetta fosse conosciuta sin dal Medioevo: essa era letta e studiata dagli alchimisti, soprattutto perché contiene una delle prime descrizioni della polvere da sparo, dei suoi componenti e dei suoi usi.[15] Riportiamo ora alcune ricette proposte da Marco Greco per realizzare miscele esplosive e trascritte da Francesco di Giorgio.

La prima consiste nel pestare insieme una libbra di «sandarac pura» (resina di ginepro comune) e una libbra di «ammoniaco liquidissimo» (probabilmente ottenuto dal sale ammoniaco); quindi riporre il tutto in un contenitore di vetro e scaldarlo sul fuoco in modo che si possa liquefare; infine aggiungere quattro libbre di catrame.

Un altro modo è mettere insieme in un recipiente olio di «etiopia» (estratto da salvia argentea), catrame e olio di zolfo (olio ottenuto da polvere di zolfo e olio di ginepro). Il composto così ottenuto deve poi essere riposto sotto il letame di pecora per quindici giorni. Trascorso il tempo necessario per la maturazione, la miscela può essere utilizzata per riempire dei corni cavi da tirare ai nemici. I corni non prenderanno subito fuoco ma si incendieranno con il calore del Sole.

Francesco di Giorgio riporta anche la “ricetta” del fuoco greco, una miscela esplosiva utilizzata dai bizantini per incendiare le navi avversarie e così composta: zolfo, colofonia grassa (resina vegetale), «sterco vecchissimo di colombo», aspalto (probabilmente una miscela di idrocarburi) e tre libbre di nafta chiara. Dopo aver macinato il composto, spiega l’architetto senese, bisogna aggiungere olio di lino e trementina (resina vegetale) in un’ampolla piena di loto. A questo punto è necessario far maturare la miscela ottenuta in «sterco» di cavallo per un mese, avendo l’accortezza di cambiare lo sterco ogni sette giorni. Tale polvere diventerà liquida e dovrà essere versata in una cucurbita cava (ad esempio in una zucca). Infine, si procede con la distillazione.[16] Con il termine cucurbita si indicava anche un vaso di vetro, terracotta o metallo, dal fondo piatto, che faceva parte dell’alambicco ed era, appunto, usato nelle distillazioni.

Un altro modo per produrre il fuoco greco è fondere insieme pece greca (un tipo di resina), «galbarun» (galbano, una gomma resina ottenuta per incisione del fusto delle piante del genere ferula) e zolfo pestato; al termine si doveva aggiungere un quarto di cera rispetto al peso del composto ottenuto.[17]

Il fuoco greco, può essere realizzato, riporta Francesco di Giorgio, anche facendo bollire insieme zolfo, feccia indurita del vino, «sercocolla» (una specie di gomma resina), «sal petroso» (sale minerale, più verosimilmente salpetre o salpietra, nitrato di potassio) e olio comune.

Francesco di Giorgio traduce anche la ricetta di un fuoco molto potente, in grado di distruggere la città sui monti. Si mescoli una libbra di balsamo, cinque libbre di pece liquida, olio di uova e calcina viva (calce viva). Con questo composto si possono ungere pietre, legna ed erba, tutto ciò che si vuole bruciare: la prima pioggia autunnale l’accenderà e farà bruciare tutto.[18] La calce viva, per la sua particolare caratteristica di accendere la miscela con il calore che sviluppava a contatto con l’acqua, era spesso impiegata nelle battaglie navali. Ovviamente, il tentativo di spegnere l’incendio con l’acqua non faceva altro che produrre altro calore e prolungare la combustione della miscela.

Dal Rinascimento ai giorni nostri. Alcune valutazioni sull’arte della guerra

La polvere pirica rimase l’unico esplosivo fino a metà Ottocento, quando fu soppiantata dalle cosiddette “polveri senza fumo”, come la balistite e la cordite.[19] La principale novità di queste polveri è nel loro epiteto: la balistite e la cordite sviluppavano molto meno fumo rispetto alla polvere pirica. Meno fumo significa migliore visibilità del tiratore e minore probabilità di essere individuati dai nemici. A differenza della polvere pirica, le “nuove” polveri sono a base di nitrocellulosa, ottenuta dalla nitratazione di cellulose, e di nitroglicerina, ottenuta gelatinizzando la nitrocellulosa con la nitroglicerina. La balistite (costituita da nitrocellulosa e da nitroglicerina in parti uguali) è stata brevettata da Alfred Nobel sulla base delle ricerche di Paul Marie Eugène Vieille.[20] La cordite, inizialmente costituita dal 57% di nitroglicerina, fino al 5% di vasellina e il resto di nitrocellulosa, fu inventata da chimici inglesi e venne largamente utilizzata nella Seconda Guerra Mondiale.[21] Attualmente la tradizionale polvere da sparo è prevalentemente usata per realizzare i fuochi d’artificio.

Le diverse soluzioni rinascimentali per realizzare la polvere da sparo, qui brevemente elencate, ci permettono di capire quanto nel tempo le nostre conoscenze tecnico-scientifiche si siano evolute. Tuttavia, come la storia insegna e come il presente continua a farci ricordare, l’evoluzione delle conoscenze tecnico-scientifiche non implica una progressiva maturazione del nostro essere uomini o del nostro senso civico. Le numerose guerre continuano a dilaniare il mondo in cui viviamo, producendo sofferenza, morte e paura. La materializzazione di un rischio bellico nella pancia del continente europeo potrebbe finalmente far riflettere sul fatto che accanto al progresso tecnologico e scientifico sia da affiancare anche un progresso civile e umano. Non per caso, nel componimento poetico dedicato all’artiglieria, il poliedrico urbinate Bernardino Baldi (1553-1617) esprimeva la sua valutazione sull’impatto delle armi da fuoco utilizzando queste parole:

Dopo mille anni e mill’anni, al secol nostro;/ gia per mille cagion nimico al cielo,/ venisse à noi lo spaventoso ordigno,/ dalle mani di Pluton.[22]

Tuttavia, il progresso tecnologico e scientifico non può e non deve arrestarsi, anche se lo spettro di un uso improprio delle innovazioni tecniche sembra essere sempre dietro l’angolo. Nella parte finale del Discorso di chi traduce sopra le machine se moventi, un’introduzione posta in apertura della traduzione in volgare dell’opera De gli automati ovvero macchine semoventi di Erone, sempre il già citato Bernardino Baldi riflette sul valore morale della tecnica.[23] In questa introduzione Baldi allude al fatto che la tecnica non deve essere considerata né buona né cattiva: le valutazioni morali possono essere attribuite solamente all’uso che l’uomo fa della tecnica. Anche Francesco di Giorgio Martini era rimasto stupìto dalla violenza sprigionata dalle armi da fuoco, le quali però, secondo il suo punto di vista, sono necessarie per difendersi dagli aggressori.

Ma li moderni ultimamente hanno trovato uno instrumento di tanta violenza, che contro a quello non vale gagliardia, non scudi, non fortezze di muri, peroché con quello ogni grossa torre in piccolo tempo è necessario si consumi.[24]

In questa breve ricostruzione abbiamo voluto porre l’attenzione sull’importanza storica dell’evoluzione dell’arte della guerra in epoca rinascimentale, prendendo come esempio i riferimenti alla polvere da sparo nel fregio dell’arte della guerra del Palazzo Ducale di Urbino e nei Trattati di architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini. Sebbene il nostro ripudio per ogni genere di violenza sia totale, riconosciamo, e in fondo è un dato di fatto, che nell’arte militare tipica del periodo rinascimentale, come anche in quella che contraddistingue la nostra epoca, convergono i saperi e le innovazioni chimiche e tecniche del tempo.



[1] *Questo lavoro è stato svolto nell’ambito del Progetto PANN20_00029: Alle radici dell'umanesimo scientifico. Valorizzazione con le tecnologie della realtà virtuale e aumentata delle macchine rappresentate nelle formelle del Palazzo Ducale di Urbino. Progetto realizzato con il parziale contributo dal MUR: legge 28 marzo 1991 n. 113, “Iniziative per la diffusione della cultura scientifica”.

[2] Vannoccio Biringuccio nel Libro X del De Pirotechnia, pubblicato nel 1540, spiega come produrre la polvere pirica (edizione consultata V. Biringuccio, De la pirotechnia, appresso Gironimo Giglio, Venetia, 1559). Il rinomato maestro d’abaco Niccolò Tartaglia dedica una parte dell’opera Quesiti et inventioni diverse alle varie composizioni e alle proprietà della polvere pirica (N. Tartaglia, Quesiti et inventioni diverse, I edizione 1546, riproduzione in facsimile dell’edizione del 1554, a cura di A. Masotti, Brescia, 1959, Libro III). Sul tema si possono consultare l’introduzione di Aldo Mieli all’edizione critica del De Pirotechnia (V. Biringuccio, De la pirotechnia [1540], a cura di A. Mieli, Società Tipografica Barese, Bari, 1914, vol. I, Prologo, pp. XXVII-XLV), F. Ansani, «Tra necessità bellica ed innovazione tecnologica. La formazione dei «maestri di polvere» fiorentini nel Quattrocento», in Mélanges de l’École française de Rome - Italie et Méditerranée modernes et contemporaines, 131-2, 2019 (http://journals.openedition.org/mefrim/6535) e C. Singer, E. J. Holmyard, A. R. Hall e T. I. Williams (a cura di), A History of Technology, Volume II, The Mediterranean Civilizations and the Middle Ages c. 700 B.C. to c. A.D. 1500, Clarendon Press, Oxford, 1972, vol. II, pp. 374-382.

[3] Attualmente i lavori più completi sulle 72 formelle del Palazzo Ducale di Urbino sono i seguenti: G. Bernini Pezzini, Il fregio dell'arte della guerra nel Palazzo ducale di Urbino. Catalogo dei rilievi, Galleria nazionale delle Marche, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, Roma, 1985; L. Molari, P. G. Molari, Il trionfo dell'ingegneria nel fregio del Palazzo ducale d’Urbino, ETS, Pisa, 2006.

[4] Per una descrizione dell’uso delle armi da fuoco nel Rinascimento e in particolare nell’ambiente urbinate si veda E. Gamba, Uomini e cannoni a Urbino nel Rinascimento. Storie di architetti e ingegneri militari, Quaderni del Centro di Studi “Urbino e la prospettiva”, Urbino, 2008.

[5] Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, a cura di C. Maltese e L. Degrassi Maltese, 2 voll., Edizioni il Polifilo, Milano, 1967, Quinto Trattato, pp. 417-420; Francesco di Giorgio Martini, Trattato di architettura civile e militare, con dissertazione e note per servire alla storia militare italiana, a cura di C. Saluzzo e P. Promis, Tipografia Chirio e Mina, Torino, 1841; risorsa parzialmente disponibile online: https://it.wikisource.org/wiki/Trattato_di_architettura_civile_e_militare_I (Libro V, Capo 1 e Capo 2).

[6] A. Quartaroli, C. Rodano, F. Millosevich, A. Benedicenti, L. Manfredi, Zolfo, in Enciclopedia Italiana, Treccani, 1937; https://www.treccani.it/enciclopedia/zolfo_%28Enciclopedia-Italiana%29/#:~:text=Elemento%20metalloidico%2C%20simbolo%20S%2C%20peso,16)%2C%20numero%20atomico%2016.

[7] ZonWu, Salnitro, zolfo e carbone: la polvere nera nell’antichità, in VitAntica.net, 2019; https://www.vitantica.net/2019/09/23/salnitro-zolfo-carbone-polvere-nera/.

[8] U. Sborgi, Salnitro, in Enciclopedia Italiana, Treccani, 1936; https://www.treccani.it/enciclopedia/salnitro_%28Enciclopedia-Italiana%29/.

[9] F. Grottanelli, G. Pannoncini, Polveri piriche, in Enciclopedia Italiana, Treccani, 1935; https://www.treccani.it/enciclopedia/polveri-piriche_%28Enciclopedia-Italiana%29/.

[10] L. Colliado, Prattica manuale dell’artiglieria dove si tratta dell’eccellenza, e origine dell’arte militare, e delle macchine usate dagli antichi, per Girolamo Bordoni e Pietromartire Locarni, Milano, 1606, p. 262 e anche G. Lionetti, M. Pelosi, I ‘salnitrari’ e la produzione della polvere da sparo a Matera, in Mathera. Rivista trimestrale di storia e cultura del territorio, pp. 8-14; http://www.rivistamathera.it/wp-content/uploads/2021/03/Lionetti-Pelosi-I-salnitrari-e-la-produzione-della-polvere-da-sparo-a-Matera-min.pdf.

[11] Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, op. cit., Quinto Trattato, p. 420. Una libbra corrisponde a circa 300 gr. Tuttavia, al tempo di Francesco di Giorgio Martini la stessa unità di misura variava di città in città. Per fare un esempio a Pesaro una Libbra anconitana equivaleva a circa 0,3296 kg.; a Urbino una libbra equivaleva a circa 0,3255 kg.; a Siena una libbra equivaleva a circa 0,3395 kg.; a Roma una libbra equivaleva a circa 0,3390 kg. Sul tema si veda il fondamentale lavoro di Martini (A. Martini, Manuale di metrologia ossia misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli, Ermanno Loescher, Torino, 1883).

[12] Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, op. cit., Quinto Trattato, pp. 420-422, seguiamo la versione del codice Senese S. IV. 4 (Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena).

[13] Ivi, Arte militari e machine belliche antiche e moderne, pp. 220-221.

[14] G. Giorgetti, Gli albori delle armi da fuoco, dalle antiche misture incendiarie alle bombarde europee, Rivista “Etnie”, 11/03/2017; https://www.rivistaetnie.com/armi-da-fuoco-antiche-79772/.

[15] E. Mori (a cura di), Marchus Graecus - Liber ignium - Testo latino e traduzione in lingua italiana, in Enciclopedia delle armi, 1997-2003; https://www.earmi.it/varie/marco%20greco.htm.

[16] Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, op. cit., Dal «Libro dei fuochi» di Marco Greco, pp. 247-250.

[17] Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, op. cit., Arte militari e machine belliche antiche e moderne, p. 207.

[18] Ibidem.

[19] F. Grottanelli, G. Pannoncini, Polveri piriche, op. cit.

[20] P. Cardillo, Paul Vieille vs Marcelin Berthelot: chi ha davvero inventato la bomba calorimetrica?, in La chimica e l’industria, anno XCVII, n° 2, marzo/aprile 2015, pp. 56-58; https://www.soc.chim.it/sites/default/files/chimind/pdf/2015_2_56_ca.pdf.

[21] Britannica, The Editors of Encyclopaedia, «Cordite», in Encyclopedia Britannica, 13 Apr. 2017; https://www.britannica.com/technology/cordite (Accessed 20 December 2022).

[22] Bernardino Baldi, Biblioteca Nazionale di Napoli, ms XIII D. 38, c. 196r, in A. Serrai, Bernardino Baldi. La vita, le opere. La biblioteca, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano, 2002, pp. 184-186.

[23] B. Baldi, Di Herone Alessandrino, De Gli Automati, overo Machine Se Moventi, Libri due, appresso Girolamo Porro, Venetia, 1589, Discorso di chi traduce sopra le machine se moventi.

[24] Francesco di Giorgio Martini, Trattati di architettura ingegneria e arte militare, op. cit., Quinto Trattato, pp. 417-418.