Didattiche innovative: il contributo delle pedagogie e delle discipline

Carlo Cappa

Dipartimento di Storia, Patrimonio Culturale, Formazione e Società dell’Università di Roma “Tor Vergata”

Elena Ghibaudi

Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino

Francesca Tovena

Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma “Tor Vergata”

Mariano Venanzi

Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche dell’Università di Roma “Tor Vergata”
e-mail: venanzi@uniroma2.it

Abstract:  This contribution reports, in the form of an interview, the contents of a round table dedicated to the teaching innovation provided by the integration of pedagogical and disciplinary teachings. This round table has been held on 2022 in the framework of “Future Sight Tor Vergata”, a series of events promoted on occasion of the 40th anniversary of the University of Rome Tor Vergata (UTV).

Keywords:  didattica innovativa; pedagogia; didattica disciplinare; epistemologia; integrazione fra le discipline; Teaching and Learning Centers

In questo testo riportiamo, sotto forma di intervista, i contenuti di una tavola rotonda dedicata al contributo delle pedagogie e delle didattiche disciplinari alla innovazione della didattica tenutasi il 26 ottobre 2022 nel quadro di ‘Future Sight Tor Vergata’, una serie di eventi promossi in occasione dei 40 anni di attività della Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” (UTV).

Hanno partecipato alla tavola rotonda, Carlo Cappa, professore ordinario di Storia della Pedagogia (UTV), Elena Ghibaudi, ricercatrice di Chimica Generale e Inorganica dell’Università di Torino, Francesca Tovena, professore associato di geometria, (UTV) e Mariano Venanzi, professore ordinario di Chimica Fisica (UTV), in veste di moderatore. La registrazione integrale della tavola rotonda è disponibile sul sito: https://torvergata40.uniroma2.it/eventi/didattiche-innovative-il-contributo-delle-pedagogie-e-delle-discipline/

Mariano Venanzi (MV) – Quando mi è stato proposto di organizzare una tavola rotonda sull’innovazione didattica, mi sono chiesto quale è lo snodo decisivo per migliorare gli standard di insegnamento dei nostri docenti e di apprendimento dei nostri studenti. A me pare che il punto cruciale sia l’incrocio tra le competenze pedagogiche e quelle più strettamente disciplinari e, accanto a ciò, una riflessione epistemologica su questi aspetti. Ho voluto, pertanto, chiamare intorno a questo tavolo, il professore Carlo Cappa, ordinario di Storia della Pedagogia presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, la professoressa Francesca Tovena, associata di geometria, anche lei dell’Università di Roma “Tor Vergata”, che da tempo si occupa di didattica della matematica nei diversi gradi dell’insegnamento, e la dottoressa Elena Ghibaudi, ricercatrice chimica dell’Università di Torino, che da diversi anni si occupa di problemi didattici da un punto di osservazione privilegiato, che è quello epistemologico. Comincerei a chiedere al Professore Carlo Cappa, quali sono, secondo lui, i contributi che un approccio pedagogico può dare al miglioramento del nostro modo di fare didattica.

Carlo Cappa (CC) – Nel domandarsi quale sia il contributo pedagogico alle scienze dell’educazione, inevitabilmente, sorgono una serie di problematiche interne alla questione, perché le scienze dell’educazione interrogano i metodi didattici nei diversi ambiti disciplinari. Qualunque innovazione si colloca sempre all’interno di una duplice cornice istituzionale e ideale. Intendo dire che le scienze dell’educazione sono tradizionalmente impegnate nel pensare l’atto educativo o formativo nella sua interezza e complessità, partendo dalla constatazione di una insufficienza. La consapevolezza dell’esistenza di un problema, di qualcosa che potrebbe essere fatto meglio, è il motore della ricerca pedagogica. È intrinseca alla pedagogia, nella sua epistemologia, una tensione che trasforma l’esistente. In tal senso il pensiero pedagogico non è mai avulso dal prospettare un cambiamento, tanto con la critica puntuale dell’attuale, quanto con la proposta di pratiche innovative.

Le scienze dell’educazione nel rivolgersi ai metodi didattici operano su diversi piani. È fondamentale capire a chi ci si rivolge, quali sono le istituzioni educative, ove i metodi prendono corpo, la loro efficacia nell’apprendimento di conoscenze e competenze e la loro congruità con l’ideale di essere umano, tanto nella sua dimensione individuale, quanto sociale. Un metodo didattico è anche un modo per pensare chi vogliamo formare e come vogliamo formarlo.

Bisogna impegnarsi affinché possa crescere la professionalità degli insegnanti nelle scuole e dei docenti negli atenei. E qui non posso non sfiorare il punctum dolens dell’intreccio tra sperimentazione educativa, formazione iniziale degli insegnanti e ricezione delle innovazioni pedagogiche. Nel suo complesso, il sistema di istruzione, università compresa, ha sempre avuto una grande forza di inerzia, che ha spesso costituito un freno ai cambiamenti maturati, tanto all’interno quanto all’esterno del sistema istruzione. Ci sono casi virtuosi, come la scuola di Chicago di Dewey, in cui la sperimentazione educativa creava un circolo virtuoso tra teoria, applicazione e correzione della teoria. Sono casi celebri, ma episodici. Non è un caso che nel nostro paese il ciclo dell’istruzione dove si registra una maggiore attenzione alla dimensione metodologica specifica delle diverse classi educative è quello della scuola primaria, al quale si giunge dopo un percorso universitario quinquennale a ciclo unico, nel quale coesistono i versanti disciplinari, pedagogici, psicologici, e metodologici, coniugati ad approcci didattici sperimentali quali la didattica frontale, i laboratori, il tirocinio diretto e indiretto.

Dovendo individuare alcune coordinate che hanno guidato nel recente passato le innovazioni didattiche proposte, menzionerei la didattica digitale, l’equità, l’inclusione, e, trasversale a queste, la valutazione. Sulla prima non vorrei soffermarmi, perché è stato un tema all’ordine del giorno per tanto tempo. Sugli altri aspetti, da più di un decennio equità ed inclusione, quest’ultima rivolta anche a contesti interculturali, non soltanto ai bisogni educativi speciali o ai disturbi specifici dell’apprendimento, sono punti centrali dell’agenda italiana ed europea. Basti pensare agli incontri che cadenzano il processo di Bologna, e anche ai risultati di Vitalis, l’indagine internazionale sugli insegnanti.

Come detto, la tematica della valutazione è parte integrante della progettazione educativa e accompagna ogni momento dell’educazione. In tal senso, la valutazione o è formativa o non è valutazione. Seppure a riguardo le sperimentazioni siano numerose, la strada da fare, specie nell’istruzione superiore, resta ancora lunga.

Devo dire, che i decisori politici si dimostrano spesso sordi alle acquisizioni scientifiche, giungendo talvolta a osteggiarle. Senza entrare nella polemica tra merito e istruzione, il problema per un pedagogista è che l’istruzione contiene il concetto di merito, non è qualcosa separata dal merito. L’istruzione o ha in sé il merito, con al suo interno anche il concetto di equità o il concetto di inclusione, oppure non è istruzione. Mi sembra che queste possano essere identificate come le direttive delle innovazioni didattiche maggiormente diffuse oggi e nel recente passato.

MV – Merito, valutazione, istruzione sono parole complesse e dovremmo tutti fare molta attenzione al loro uso e consumo. Chiederei a Francesca Tovena: dal tuo punto di vista quanto le discipline possono avvalersi di un approccio pedagogico?

Francesca Tovena (FT) – La pedagogia è focale e centrale in ogni pensiero relativo alla didattica. Cura l’arte di insegnare e pone l’attenzione sull’atto di insegnare, ma anche sugli agenti che sono all’interno, chi spiega e chi ascolta e capisce. Si tratta di un momento di relazione cruciale. Quello che a me sembra interessante è immaginare delle modalità operative, in cui si riesca effettivamente a creare una sinergia efficace. Nella formazione primaria, si è sviluppata una discussione che è durata anni, arrivando a una visione connessa tra le discipline, in modo che ciascuna esprimesse i punti focali e d’arrivo della materia e l’insegnamento fosse visitato in una visione collettiva più integrata. Credo che questa sia una acquisizione di estremo rilievo.

Dal punto di vista delle cose che possiamo fare, abbiamo un’arma in più che è lo sviluppo delle neuroscienze. Quest’arma ci permette di indagare in maniera precisa sulle competenze dello studente, sia dal punto di vista delle competenze primarie, sia dal punto di vista della comprensione di quale sia il modo più naturale per percepire alcune cose. Capiamo la quantità come una lunghezza, o capiamo la quantità come più oggetti separati? In che modo questi due modi di visione entrano quando si tratta di arrivare poi a un concetto più formale o più astratto? È una fase in cui abbiamo un estremo bisogno di collaborazione da parte di chi conosce le discipline e ci lavora in maniera attiva, perché è in grado di definire quali sono gli obiettivi educativi da raggiungere. Però non è possibile farlo senza indicazioni chiare di come elaborare la materia, di come imparare a proporre vari punti di vista e varie tecniche differenti all’interno della stessa materia, applicando quella che è più funzionale. Le affermazioni fatte da grandi didattici, come ad esempio Maria Montessori, riguardo l’utilizzo di materiali concreti, didattici, in cui manipolare, in cui allenare al movimento, far compiere dei movimenti invece di osservare le cose dall’esterno, è essenziale dal punto di vista della crescita dello studente. Lo sviluppo di specifici materiali didattici, fatto in maniera critica, funzionale e attenta, è essenziale per portarlo ad un atteggiamento attivo in cui impara a scoprire buona parte delle relazioni tra gli oggetti. Questo è uno dei punti, l’utilizzo attento, costruito, determinato e ben impostato delle attività di laboratorio.

L’altra lezione nasce dalla necessità di far cooperare le discipline tra di loro. È bene costruire degli argomenti che vengano curati da più docenti con attenzioni differenti, non per mischiare le cose o confonderle, ma per mettere in evidenza la potenza delle singole discipline nella capacità di illustrare la realtà e le cose che si vogliono studiare in maniera più evidente. Questo dà in ogni caso allo studente una percezione complessiva del sapere che non si limita alla conoscenza di specifiche regole. Il punto è capire come farle interagire, quando le possiamo applicare, come le possiamo modificare. Credo che queste siano le fasi in cui le discipline specifiche e le pedagogie possano interagire. A cascata tutta la fase di valutazione, in cui è cruciale che disciplina e pedagogia convivano per capire, altrimenti non sapremmo nemmeno interpretare le risposte.

MV – Il riferimento alle neuroscienze è importante. Da questo punto di vista la matematica nei suoi aspetti cognitivi fondamentali è davvero un laboratorio privilegiato.

FT – Matematica è una delle materie che segue lo studente per tutto l’arco della crescita, fino all’università. È stata inserita appositamente perché, come le neuroscienze chiariscono in maniera netta, concorre a sviluppare l’interazione neuronale e, quindi, contribuisce in maniera seria allo sviluppo, non soltanto dal punto di vista spaziale o della gestione minimale delle cose, “so fare i resti quando compro qualcosa”, è un livello molto più potente. La matematica ha, purtroppo, anche una storia di fallimenti. A fronte di una presenza importante in ambito scolastico, siamo costretti a registrare delle reazioni di rifiuto in molti ragazzi e in buona parte della popolazione.

Questo ha spinto la riflessione didattica nella matematica in modo importante. Sappiamo di avere per le mani uno strumento che fa crescere i bambini, fa crescere anche gli adulti, rende autonome le persone capaci di ascoltare. Il come ci si riesce non è elementare. Dal mio punto di osservazione, vedo in tempi recenti una grossa crescita di comunità di pratica, che riunisce insegnanti di vario grado e docenti universitari, per discutere che cosa sia bene proporre, in che modo proporlo e in che modo sperimentarlo. Questo è stato sospinto da alcune occasioni create dal Ministero che a volte dà indicazioni faticose, ma altre volte invece suggerisce in positivo. Penso al Piano Lauree Scientifiche, di cui mi piace ricordare il nome del professore Nicola Vittorio, che è un nostro collega, che ha dato vita a un rilancio didattico imponendo una relazione diretta tra università e insegnanti, in modo da facilitare l’ascolto e potenziare la capacità didattica e, contemporaneamente, di ricerca. Il profilo verso il quale stiamo andando è quello dell’insegnante-ricercatore, che è un insegnante che continuamente si pone il problema di come insegnare quello che vuole insegnare e dialoga con gli altri. Se la Matematica può essere di buon esempio nel futuro degli altri, noi vediamo che queste comunità di pratica sono ben guidate, tengono molto a un’attenta progettazione di quello che viene fatto, chiarendo bene quali sono le finalità. Un esempio è quello del liceo matematico, che è appoggiato dall’Unione Matematica Italiana e vede una stretta interazione tra docenti universitari e docenti della scuola. Scelgono insieme gli argomenti, scelgono come insegnarli, progettano i materiali e sviluppano le lezioni progettate nelle ore curricolari. Io vedo una direzione positiva, lenta come sono sempre lenti i cambiamenti, però intravedo una prospettiva non disperante.

MV – I cambiamenti veri hanno sempre bisogno di tempo, come giustamente sottolinei. Io farei entrare in questa discussione Elena Ghibaudi e le chiederei di commentare quello che è stato detto finora da un punto di vista epistemologico.

Elena Ghibaudi (EG) – Sono in sostanziale sintonia con i colleghi, poiché mi sembra che entrambi propongano una visione integrata dell’insegnamento, dell’apprendimento e della formazione degli insegnanti. La parola-chiave di questo dibattito è innovazione e io credo che l’innovazione didattica debba innanzitutto comportare lo sviluppo di un pensiero originale, accompagnato da cambi di prospettive e di modalità di azione, che aprano strade che non sono ancora state percorse. Ciò fa appello a una idealità che è necessario avere in mente, almeno come punto prospettico e come ideale da perseguire. La mia prospettiva è quella di qualcuno che lavora in ambito scientifico e, quindi, sono familiare con la didattica della chimica, o allargando un po’ il campo, delle scienze. In questo ambito, contributi innovativi possono provenire da aperture di prospettive di indagine e di collaborazione con settori tradizionalmente un po’ più lontani, come l’ambito pedagogico, quello delle didattiche generali e la psicologia. Per esempio, abbiamo la necessità di sviluppare degli strumenti compensativi ad hoc per assistere allievi con DSA nello studio delle scienze e delle materie scientifiche. È un campo che richiede un’interazione forte tra competenze disciplinari scientifiche e di altro tipo. Nell’insegnamento delle scienze, c’è poi l’esigenza cogente di prestare attenzione agli aspetti processuali delle scienze, ossia al modo in cui il sapere scientifico viene costruito, ciò che alcuni chiamano la nature of science, in quanto tali aspetti identificano un substrato comune a tutte le diverse discipline scientifiche. Ciò mi sembra necessario in quanto, oltre alle esigenze di acquisire dei contenuti disciplinari, c’è la necessità di capire come quei contenuti disciplinari sono stati elaborati, quali ne sono i presupposti e anche i limiti, così da essere inseriti dentro un quadro interpretativo che è diverso e specifico per ciascuna disciplina scientifica. Questo lavoro è importante perché consente agli allievi di assegnare un significato a ciò che apprendono e li aiuta a collocare le discipline scientifiche in un rapporto corretto con altre forme di sapere e di conoscenza della realtà. Mi pare che apprendere comporti innanzitutto costruire significati. In quest’ottica un’attenzione agli aspetti epistemologici delle discipline è fondamentale.

I ragionamenti che stiamo facendo oggi guardano al futuro, ma ciò non esclude l’interrogarsi sull’immediato passato. Rispetto a ciò vorrei dire qualcosa che non vuole suonare come una provocazione, ma piuttosto come un invito alla riflessione. Mi pare che in questi ultimi tempi si sia parlato molto di innovazione didattica: questa locuzione è risuonata in molte situazioni e in molte occasioni. Ora, mi pare che troppo spesso sia stata suggerita l’equivalenza “innovazione didattica uguale innovazione tecnologica”. Nominando l’e-learning, è certo che l’esperienza degli strumenti tecnologici per la didattica, indotta forzatamente dalla pandemia, ci ha consentito di ampliare il parco degli strumenti a disposizione di chi insegna. Vorrei però lanciare un caveat, onde evitare semplificazioni eccessive. Questo nostro dibattito non lascia spazio a semplificazioni, in quanto la prospettiva dei colleghi che sono appena intervenuti è complessa, e articolata; tuttavia, non possiamo ignorare che gli eccessi di semplificazione esistono e rischiano di essere dannosi proprio ai fini di una autentica innovazione didattica. Rispetto a ciò, sottolineo la necessità di fare attenzione.

MV – La sollecitazione all’attenzione è sempre preziosa. Abbiamo parlato molto della scuola e del rapporto tra scuola e università. Mi concentrerei sulla didattica universitaria. Carlo, cosa possiamo fare per migliorare gli standard della nostra didattica?

CC – La prima considerazione che mi sento di fare è quella dei luoghi in cui si pensa la didattica universitaria, in cui troppo spesso si assiste a una contrapposizione tra disciplinaristi e difensori delle scienze dell’educazione. Queste contrapposizioni, di lunghissima data, spesso sfociano in posizioni identitarie che non vogliono trovare un terreno comune, in cui pensare insieme quali possano essere i miglioramenti della didattica universitaria e, a cascata, degli altri gradi d’istruzione. Questo, tra l’altro, genera un’enorme confusione nell’opinione pubblica, perché quando si parla di istruzione ci si rivolge a una platea enorme e, in qualche modo, tutti siamo coinvolti, direttamente o indirettamente, nei processi di apprendimento.

Nelle guerre intorno alla DAD, la didattica a distanza, la maggior parte delle volte la D che era oggetto di interesse era la seconda, non la prima. Era l’elemento di distanza a essere sindacato e non l’elemento della didattica. Sfruttare le potenzialità dell’e-learning non vuol dire che siano tutte immediatamente positive o che tutte si adattino a tutte le popolazioni studentesche e a tutte le discipline. Avere, però, nella propria cassetta degli attrezzi anche degli strumenti di questo tipo è, a mio avviso, una potenzialità in più.

Per pensare dal punto di vista pedagogico la didattica e i lineamenti della didattica occorre uscire dall’illusione che esistano dei modelli didattici buoni per tutte le stagioni e, allo stesso tempo, uscire dall’illusione contrapposta che occorra cambiare tutto. Che si siano contrapposti modelli educativi, intendendo contenuti e metodologie, nella nostra storia occidentale, è un dato di fatto per chi studia la storia dell’educazione. “L’educazione corrente non fa che aumentare i nostri dubbi riguardo alle differenti proposte educative, perché ognuna delle alternative ha trovato difensori”. Questa affermazione non è di un testo recente, prodotto nelle discussioni sull’e-learning, è della Politica di Aristotele, libro nel quale si parla della costituzione di Atene e di come questa debba affrontare anche problematiche educative. Già allora c’erano troppe tendenze pedagogiche e possiamo essere tranquilli sul fatto che continueranno a esserci molte visioni della pedagogia.

Le ultime due rapidissime cose che vorrei sottolineare su questo aspetto è il contributo che le scienze dell’educazione possono dare alla figura professionale dell’insegnante. E insisto sul termine professionale, perché deve essere professionale la formazione degli insegnanti e dei docenti universitari. Non è tollerabile la superficialità con cui si decreta, o con cui non si decreta riguardo a questo snodo fondamentale del nostro sistema d’istruzione.

Sono due gli ambiti in cui ci può essere un contributo forte delle scienze dell’educazione. Il primo è quello metodologico, in cui la collaborazione tra specialisti delle scienze dell’educazione e specialisti delle singole discipline deve essere più forte. È tradizione nella nostra cultura pedagogica che questa collaborazione ci sia. Penso ad Aldo Visalberghi, che nel proporre l’Enciclopedia Pedagogica, identificava quattro ambiti, in cui il primo era quello dei contenuti, che unitamente a quello sociologico, pedagogico e psicologico, rappresentavano l’insieme dei quattro settori.

Il secondo ambito in cui le scienze dell’educazione possono intervenire positivamente è quello dello sviluppo di una consapevolezza e sensibilità pedagogica in senso ampio. Credo che per un insegnante-ricercatore sia fondamentale, oltre che la conoscenza dei metodi e della disciplina, anche una vera e propria consapevolezza di quello che è il sistema di istruzione, cioè una consapevolezza delle dinamiche, potenzialità e trasformazioni che lo hanno configurato. Un insegnante-ricercatore deve sviluppare una sensibilità che gli permetta di decifrare quello che gli succede attorno, e trasmettere e collaborare nella costruzione del sapere che è il tramite con i suoi allievi. Quando sono usciti i risultati di grandi indagini internazionali, come OCSE-Pisa o il report Educational Plant 2022, non ce ne è stata praticamente menzione, né sui mezzi di stampa, né da parte dei decisori politici. La country note sull’Italia diceva alcune cose che meriterebbero l’attenzione da parte di tutto il mondo dell’istruzione, università compresa. Credo che siano questi i contributi possibili delle scienze della educazione sulla formazione professionale degli insegnanti e, quindi, sulla innovazione: quello dell’intreccio con le discipline e quello dello sviluppo di sensibilità e di consapevolezza nell’ambito pedagogico.

MV – Una delle cose che reputo positive della legge di fine giugno 2022 che regola la formazione iniziale e in servizio degli insegnanti, e di cui purtroppo a oggi non sono stati pubblicati i decreti attuativi, è la facoltà data alle Università di strutturarsi in centri per l’insegnamento di ateneo. Questi, secondo me, potrebbero diventare il luogo in cui strutturare questa collaborazione tra discipline e ambiti di scienza dell’educazione in maniera puntuale e organizzata. Francesca, pensi che potrebbero rappresentare una prospettiva utile?

FT – Già definire un luogo in cui istituzionalmente ci si occupa della didattica e della formazione è un buon passo avanti. Fino a ora le strutture che avevamo erano dedicate a far funzionare alcuni segmenti dedicati alla formazione degli insegnanti. Il problema della didattica, anche a livello universitario, è un problema enorme e l’avere un centro che sia riconosciuto all’interno dell’ateneo come il punto di discussione dei problemi di didattica è un passo avanti. Ci sono enti di ricerca che se ne occupano, ci sono istituzioni scolastiche di vario grado che chiedono aiuti nel fare formazione interna in una collaborazione paritetica con loro. La mia speranza è che questo centro sia un luogo in cui si possa discutere e iniziare a pianificare la formazione didattica del docente universitario. Un tempo, quando si entrava in università come docenti, si passava un periodo in cui si ascoltavano le lezioni di altri. Erano le stesse lezioni che magari si erano ascoltate da studenti, ma l’ottica del cambio di ruolo permetteva di approfittarne in maniera completamente diversa, chiedendosi perché scegliere un argomento piuttosto che un altro, perché introdurlo in questo modo piuttosto che in altro modo. Adesso, le generazioni più recenti entrano in università senza alcuna formazione di tipo didattico. Io penso che sia importante farsi carico di questa esigenza, rendendo possibile l’ascolto: partecipare alle lezioni di altri e poterle commentare. Ci sono degli atenei che hanno un progetto di questo tipo, chiamato progetto Mentore. A chi vuole viene data la possibilità di ascoltare e farsi ascoltare da docenti esperti dell’ateneo. Io credo che un centro ben gestito e ben lavorato sia un’opzione in più per intervenire, un passo in più rispetto a quello che abbiamo fatto finora, per lasciare meno soli i docenti universitari davanti al problema di come insegnare.

MV – Chiederei a Carlo se vuole commentare brevemente rispetto questo punto, prima di dare la parola a Elena.

CC – La sola cosa che aggiungerei è che i “Teaching and Learning Centers”, o come li chiameremo, dovranno essere anche un luogo di documentazione e di ricerca e fungere da interfaccia tra l’università e il resto dei cicli dell’istruzione. Nel senso che, se esiste un luogo accademico che non soltanto eroga della formazione, ma che pensa quella formazione, allora rivendico la duplice natura di ogni docente universitario che è certamente didattica, ma che è anche ricerca. A mio avviso, l’accrescimento non è fare ricerca su questa tematica individualmente o con la propria equipe, ma in chiave interdisciplinare. Nel senso che più discipline abbiano un luogo dove possano osservare la stessa questione dalle proprie prospettive, collaborando per trovare soluzioni e per immaginare strade possibili. Che ci sia un luogo fisico riconosciuto anche di sperimentazione e di documentazione è il primo passo per poter agire qualcosa di veramente diverso da quello che abbiamo fatto finora.

MV – Darei la parola a Elena, perché sono sicuro che vorrà commentare anche questa seconda parte del dibattito.

EG – Nuovamente, mi trovo molto d’accordo con i colleghi nel pensare che questi centri per l’insegnamento siano un’opportunità importante per realizzare proprio ciò di cui dicevamo, ossia la necessità di sviluppare un pensiero integrato, che può nascere da una feconda contaminazione reciproca tra diversi ambiti di ricerca. In molte esperienze di formazione realizzate finora (ad esempio le SISS) tali ambiti sono convissuti l’uno accanto all’altro, mentre solo una reale integrazione potrà aprire orizzonti che hanno la necessità di essere sviluppati. Rispetto a ciò, visto che si parla di formazione sia scolastica, sia universitaria e visto che il mio ambito di interesse è l’epistemologia, sento anche l’urgenza di spezzare una lancia perché in questi percorsi di formazione sia previsto uno spazio per la riflessione epistemologica. Da persona che lavora nell’ambito della scienza, la sento come un’urgenza particolarmente forte, perché mi accorgo che l’idea di scienza, presente non solo tra il pubblico non specializzato, ma anche tra i colleghi, è spesso ancora molto ottocentesca: la scienza come una sorta di ragioneria dei fatti, secondo un’ottica fortemente positivista, ossia un’attività che si occupa di fatti oggettivi, li porta alla luce e, facendolo, rivela la realtà fisica quale essa è. Quindi per me la riflessione epistemologica è importante soprattutto per far capire che qualunque sapere disciplinare, incluso quello scientifico, è un contenuto strutturato di pensiero sulla realtà; pertanto, ogni disciplina è caratterizzata da una propria struttura logica ed epistemica, da prassi conoscitive e da ontologie di riferimento che cambiano da un ambito disciplinare all’altro. E, dunque, fare scienza è un’attività interpretativa e non una presa d’atto delle cose così come sono. Insisto che questo è importante per accrescere il bagaglio culturale di tutti e anche per risolvere alcune contraddizioni che io vedo nel modo in cui le scienze sono intese e, conseguentemente, vengono insegnate.

MV – Ci sono parole che sono risuonate e che credo risuonino anche nelle tue corde, quelle di ricerca e didattica.

EG – È stato detto che è importante creare degli spazi di ricerca interdisciplinare nel senso più pregnante e propositivo di questo termine. Sicuramente di questo c’è bisogno, ma ciò implica anche che tutte le discipline debbano dotarsi di aree di ricerca didattica riconosciute, il che per le discipline scientifiche non è sempre il caso. Ci sono alcune discipline che riconoscono la ricerca didattica, storica ed epistemologica come parte integrante del proprio spazio di ricerca, e altre che, purtroppo, non sono così avanti. Ritengo ci sia l’urgenza di promuovere spazi di ricerca disciplinari che siano direttamente indirizzati alla didattica e, accanto a questa, alla ricerca storica ed epistemologica, che sono collegate alla ricerca didattica almeno per quanto riguarda le discipline. Questa è una esigenza che, ad esempio, molti chimici avvertono.

MV – Chiederei a Carlo e Francesca di intervenire anche loro brevemente su questo punto, se si sentono di commentare.

CC – L’unica cosa che terrei sullo sfondo riguardo la ricerca in didattica, non soltanto rispetto all’insegnamento, ma nel senso più generale, è anche comprendere come si è trasformata l’università in quanto tale negli ultimi anni, perché è mancata una riflessione seria e laica su questo aspetto. Per laica intendo dire non ancorata a visioni troppo ideali dell’università. Capire anche che cosa scricchiola del tardo modello humboldtiano, visto che sono diversi decenni che diciamo che non c’è più. La didattica universitaria, soprattutto dall’ingresso nel processo di Bologna, dalla revisione del 3+2, ha cambiato pelle. È necessario pensare ad una differenziazione delle università, università di ricerca e di didattica, pensare a equilibri differenti. I modelli possono essere diversi, ma devono essere pensati. Soprattutto perché se non lo facciamo noi, lo farà qualcun altro e, quindi, è nostra responsabilità verso gli studenti e verso noi stessi.

FT – È stato sottolineato che è necessaria una sinergia tra tutte le parti per ottenere dei risultati funzionali, ma anche per creare un ambiente in cui il singolo venga continuamente stimolato nei confronti delle modalità con cui insegna, accompagnato e stimolato a tutti i livelli. Bisogna immaginare delle strutture, delle modalità operative, che effettivamente portino questa abitudine a discutere del come si insegna, provare a sviluppare metodologie, ad analizzarle e sperimentarle in maniera assennata. Penso che questo sia un buon indirizzo. So anche come sia complesso realizzare questa sinergia, ma so che questa è la direzione nella quale è conveniente muoversi.

MV – Dovrei dire qualcosa in conclusione, ma non ho conclusioni da proporre. Nel senso che gli argomenti di cui si è discusso hanno bisogno di una riflessione profonda e meditata. L’università deve ripensare sé stessa, a come è cambiata e a come vorrebbe essere, perché questa è una riflessione che manca, che non abbiamo fatto neppure noi che siamo gli attori di questi processi.

Ringrazio Carlo Cappa, Elena Ghibaudi e Francesca Tovena per i loro contributi alla discussione. Tutte le volte che parlo con uno di loro imparo qualcosa e, quindi, ho sfruttato questa occasione per impararne di nuove, spero insieme ai lettori di Chimica nella Scuola.