Questi tempi: analisi, riflessioni, proposte
Paola Bortolon
Associazione Nazionale Insegnanti Scienze Naturali (A.N.I.S.N.)
e-mail: bortolonpaola@gmail.com
Indice
Abstract. The article proposes a reflection on some aspects of today’s society’s cognitive and social dimensions. These aspects can affect teaching-learning and limit young people’s volition, autonomy, and determination. With some references to the past situation, simple examples and suggestions are provided to dispel misconceptions and misunderstandings, increase motivation, self-esteem, and self-determination, and make fragility and mistakes perceived as opportunities for growth and resilience.
Keywords: società, intelligenza, stile attributivo, vita reale, vita virtuale
Avendo ben presente il Bias dell’ancoraggio, che ci porta a considerare solo alcuni aspetti o elementi di una situazione, e il Bias degli affetti, che ci spinge a privilegiare gli oggetti personali e le attività praticate, non amo le frasi “Ai miei tempi …” e “Noi eravamo diversi…”, sottintendo con esse una nostra superiorità nel modo di essere e di operare. Eravamo certamente diversi perché vivevamo in un periodo temporale diverso, con offerte e richieste non confrontabili con quelle attuali. Eravamo in un certo qual modo “programmati” per vivere allora. Rimpianti, nostalgie, recriminazioni rattristano, immobilizzano e non risultano di alcuna utilità.
L’articolo descrive alcune situazioni e problematiche, in parte condividibili, che potrebbero richiedere strategie migliorative, o attivare un dialogo intergenerazionale, in particolare tra le così dette generazione Y e Z.
Il contesto familiare e ambientale in cui si cresce ci influenza e ci modifica, chi nasce e vive in un luogo degradato ha meno opportunità di evolvere culturalmente e socialmente, ma in ognuno vi è comunque una capacità di differenziazione che permette di non doversi adeguare a un modello imposto da altri o dal contesto, che ci aiuta a non seguire la corrente, come dice Paolo Crepet [1], e a scegliere la propria strada. Vi è quindi una possibilità di autodeterminazione, che si attiva quando si percepisce di essere competenti e autonomi, liberi di scegliere cosa fare e come farlo, e si intuisce l’accettazione del proprio agire da parte degli altri [2].
Ogni scelta, ogni volontà di elevarsi impone però sacrifici, comporta difficoltà, paure e ripensamenti che non sempre e non tutti sono disposti ad affrontare. Il consueto, la quotidianità, la ripetitività, il noto tranquillizzano, non provocano stress, ma anche rendono la vita piatta e monotona.
I ragazzi delle passate generazioni non erano tutti onesti, responsabili, impegnati, assertivi ed empatici, non vivevano tutti in un contesto protetto e agiato, ma la scuola era riconosciuta da molti di loro un ascensore sociale, pur nella consapevolezza che chi aveva meno disponibilità economiche e una famiglia poco “aperta” doveva faticare di più, ma quando l’ostacolo veniva superato maggiore era la gioia. Si accrescevano parallelamente l’autostima e la volizione a proseguire; si innalzava la personale capacità di sostenere le frustrazioni e tutto ciò che a prima vista sembrava un impedimento all’apprendere si trasformava in motivazione. Un’insegnate della scuola dell’infanzia mi raccontò che, terminata la scuola media, i suoi genitori, anche a causa di ristrettezze economiche e non reputandola particolarmente dotata per lo studio, la mandarono a lavorare. L’umiliazione e la sofferenza provate la portarono, dopo qualche anno, a iscriversi a una scuola serale per ottenere il diploma che oggi la vede docente realizzata. Non solo, l’accresciuta autostima che il risultato aveva prodotto la spinse ad affrontare lo studio della musica e a imparare a suonare il pianoforte che utilizza in alcuni momenti dell’attività didattica.
“Volere è potere” dicevano i nostri nonni e “ogni sacrificio prima o poi darà i suoi frutti”, anche se non subito, come molti oggi si aspettano. Stare fermi nell’attesa di supporti esterni può certamente dare sollievo e non comporta fatiche, ma non farà provare la gioia di avercela fatta con le proprie forze. La pazienza e la perseveranza sembrano doti dimenticate in un mondo che non accetta il tempo lento, che desidera vedere tempestivamente il risultato di un’azione o di un impegno e che, sovente, non accetta una valutazione negativa, un rifiuto, in parte per l’incapacità di gestire le frustrazioni.
Le attribuzioni sono i processi attraverso i quali gli individui interpretano le cause degli eventi, delle azioni e dei fatti che si verificano [3]. Ognuno di noi ha un suo stile attributivo, caratterizzato da un diverso locus of control, che può essere interno, per cui si reputa la causa del successo o dell’insuccesso dipendente da noi (impegno, abilità, perseveranza), o esterno, quando la causa esula dalle caratteristiche o dalle abilità personali (fortuna, incapacità di un insegnante, difficoltà di un compito).
La causa, sia interna che esterna, può essere considerata stabile (duratura nel tempo) o instabile (temporanea), controllabile o non controllabile, rispettivamente modificabile o non modificabile dalla volontà individuale.
Se si reputa che il successo sia imputabile a fattori esterni, stabili e non modificabili, non ci si attiverà per superare l’ostacolo, per raggiungere il traguardo, per ottenere una promozione. La stessa inerzia si avrà nel caso in cui si reputi che l’intelligenza sia entitaria (stabile) e non incrementale, anche se le numerose ricerche e molta letteratura hanno sottolineato come l’intelligenza aumenti con l’esercizio, lo studio, l’esperienza, la pratica. L’intelligenza, infatti, frutto dell’interazione del genotipo e di fattori ambientali anche dipendenti dallo stesso soggetto, si modifica nel tempo e influisce sulle prestazioni e sui comportamenti futuri.
Al di là dei personali e differenti stili attributivi, in generale, le attribuzioni relative al proprio comportamento sono di tipo interno in caso di successo (sono bravo, mi impegno, studio), di tipo esterno in caso di fallimento (sfortuna, compito difficile), mentre le attribuzioni rispetto al comportamento degli altri sono prevalentemente di tipo esterno in caso di successo (fortuna, compito facile), di tipo interno in caso di insuccesso (non è bravo, non si è impegnato).
Affrontare un esame con l’idea del giorno fortunato o sfortunato, del compito facile o difficile, del docente severo o lassista, e del fatto che la situazione non sia in alcun modo modificabile, a lungo andare deresponsabilizza e può condurre alla condizione di impotenza appresa, l’attesa passiva e fatalistica dell’esito dell’evento, dato per scontato.
L’inerzia di alcuni giovani può essere combattuta non abbassando l’asticella delle difficoltà, non attribuendo ad altri le responsabilità degli insuccessi, non ricercando un capro espiatorio, ma facendo cogliere, attraverso il dialogo e il sostegno non compassionevole, la capacità di poter contrastare una situazione, di poter superare l’ostacolo, di poter riuscire. Qualche attività di metacognizione, con la riflessione sulle personali disposizioni (capacità, limiti di memoria, modalità di elaborazione delle informazioni), l’analisi delle caratteristiche di un compito, la scelta di specifiche strategie di lavoro (schemi, mappe, sintesi, …), aiuterà nell’autoregolazione, sia cognitiva sia emozionale, e consentirà la valutazione corretta degli accadimenti vissuti.
Non esiste ancor oggi una definizione univoca di intelligenza, anche se vi è maggiore accordo nel ritenere l’intelligenza come la capacità di produrre un comportamento adattivo e funzionale al raggiungimento di uno scopo [4].
Nel corso dell’ultimo secolo gli studiosi hanno continuato a discutere se l’intelligenza fosse un’abilità cognitiva singola, monolitica, innata e immutabile [5], o un insieme di abilità non necessariamente legate da un unico fattore sottostante [6, 7], diversamente possedute dai singoli, e accertabili attraverso test da cui ricavare il quoziente intellettivo totale e dei sub-quozienti intellettivi relativi a vari fattori (comprensione verbale, memoria di lavoro, ragionamento visuo-percettivo, velocità di elaborazione, visualizzazione spaziale, ecc.).
Alcuni dati empirici supportano maggiormente l’idea delle intelligenze multiple, ciascuna indipendente dalle altre. Gardner si focalizzò più che sui processi mentali sugli ambiti in cui le intelligenze o formae mentis si possono manifestare e ne descrisse otto: linguistica, logico-matematica, spaziale, corporeo cinestetica, intrapersonale, interpersonale, naturalistica [8].
Il concetto di intelligenza, il livello posseduto, la sua correlazione con il patrimonio genetico ritenuto immodificabile, sovente ha portato a comportamenti di evitamento nell’affrontare una prova o una prestazione, perché un fallimento poteva venir associato a scarse qualità cognitive, cioè a scarsa intelligenza. In particolare, ritenendo le discipline scientifiche particolarmente difficili e più adatte a soggetti con un elevato quoziente intellettivo, molti giovani hanno preferito rivolgere i propri interessi altrove, così da non dover dimostrare i personali limiti o non dover ricevere valutazioni negative, purtroppo nella consapevolezza che talvolta il giudizio sulla prestazione si estende alla persona.
Presentare gli insuccessi, le sconfitte, le delusioni di illustri scienziati aiuterà a meglio tollerare gli incidenti di percorso, a rivalutare l’errore che molti tendono a nascondere, a non correlare errori e insuccessi all’intelligenza e alle capacità cognitive.
Come scrive Piero Martin [9]: “Si sbaglia perché si vive e si è liberi, sono anche gli imprevisti e le imperfezioni che ci rendono vitali. Rimettere insieme i pezzi dopo gli sbagli e le cadute è faticoso e talvolta doloroso, ma trasformativo.”
La famiglia è un sistema costituito da un insieme di individui interagenti, ciascuno dei quali occupa specifiche posizioni, che, secondo quanto indicato da Rogers [10], possono essere riassunte in quella di marito-padre, moglie-madre, figlio con fratello maggiore, figlio con fratello minore.
Ogni posizione comporta specifici compiti che concorrono a favorire la sopravvivenza del nucleo familiare stesso e che si concretizza nello sviluppo in ciascuno dei suoi membri del senso di appartenenza, a cui, tuttavia, si associa la capacità di manifestare la propria individualità e autonomia.
La famiglia, sia essa intesa come household o family [11], è da considerarsi come un sistema dinamico in continua evoluzione. Essa si trasforma nel tempo, in relazione ai diversi individui presenti, sotto l’aspetto psicologico, in riferimento alla modalità di rapporto e di intesa al suo interno, dal punto di vista sociale. Esiste infatti un nesso profondo tra famiglia e società, essendo la prima l’unità di base della seconda, un sistema aperto che riceve input dall’esterno e a cui invia output.
Nella sua evoluzione la famiglia attraversa specifiche fasi, in ciascuna delle quali svolge specifici compiti organizzativi e relazionali, aventi lo scopo di garantire uno stato di benessere interno, la maturazione armonica dei suoi appartenenti, il soddisfacimento dei loro bisogni primari: sopravvivenza, sicurezza, relazione, stima, autorealizzazione.
Tale armonia interna è possibile se le interazioni avvengono in modo corretto e quando vi siano capacità comunicative, educative, decisionali, di negoziazione, di accordo, soprattutto nei soggetti adulti e nelle figure genitoriali. La qualità della comunicazione è vettore determinante della progettualità esistenziale e personale del singolo individuo, che ogni matrice familiare dovrebbe eticamente costruire.
La situazione attuale, caratterizzata da un ritmo di vita spesso frenetico, da nuovi modelli di riferimento che i mezzi di comunicazione di massa tendono a diffondere con grande velocità, il proliferare di numerose agenzie educative che si assumono parte del processo di trasmissione della cultura e dei valori, le pressioni economiche di una società, che spinge all’acquisto e al consumo come mezzo di integrazione e di realizzazione, hanno modificato l’aspetto della famiglia, portandola talora a uno stato di crisi, togliendole quella sicurezza che rappresentava uno strumento di omeostasi e mettendo in dubbio parte dei suoi compiti. Ciò ha contribuito all’isolamento dei suoi membri, all’allontanamento dei genitori dai figli e dei figli dai genitori, a una proiezione verso l’esterno, che ha inficiato la coesione interna e il collegamento con la famiglia di origine, proprio di una dimensione plurigenerazionale della famiglia.
Si osserva inoltre, particolarmente nel contesto italiano, un ritardo e un cambiamento nel passaggio dei figli allo stato di adulto, che un tempo coincideva con la cosiddetta “uscita di casa”, avendo il ragazzo o la ragazza acquisito l’autonomia emotiva, cognitiva ed economica. Oggi lo stadio adulto si realizza “dentro casa”, con un anticipo dell’autonomia emotiva e cognitiva, ma un forte ritardo di quella economica, a cui si associa un ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro, nell’inizio di una stabile vita di coppia, nella transizione alla genitorialità. Questo nuovo periodo di vita, indicativamente compreso tra i 19 e i 29 anni, è stato contrassegnato da Jeffrey Jenses Arnett come emerging adulthood [12]. La famiglia in alcuni casi diviene ora una sorta di hotel, in cui si gode di ampia libertà senza vincoli e responsabilità [13]. Si mantengono ulteriormente i doveri di cura e protezione dei genitori, una protezione alterata nel suo significato profondo, che si manifesta in un’alternanza di comportamenti. Da un lato vi è il provvedere a tutte le incombenze di cui un genitore non dovrebbe farsi carico, la complicità nel recriminare verso l’esterno, nel difendere l’indifendibile, che vede spesso i genitori assumere il ruolo di avvocato del figlio, dall’altro lato si osservano frequenti momenti di abbandono psicologico, con prolungati silenzi, superficiale ascolto, scarso interessamento e controllo delle attività praticate dal figlio.
Si sta riducendo la distanza tra le generazioni, le madri assumono comportamenti talvolta adolescenziali e le figlie, ancora giovani, si atteggiano a donne adulte, si perdono parallelamente le asimmetrie che sono necessarie per educare.
Educare comporta distanziamento dei ruoli, fatica, flessibilità, accettazione, autorevolezza, equilibrio nel dare e nel chiedere, nel gestire i conflitte che sempre ci sono stati, nel far sperimentare il dolore, la frustrazione e la sofferenza, occasioni che preparano alla vita.
Vanno parallelamente rifuggite, nel rapporto educativo padre-madre, posizioni comportamentali opposte: restrittività-permissività, ostilità-affettività, che determinano condizioni di malessere nel singolo e concorrono a creare quei triangoli perversi, che portano a coalizioni tra alcuni soggetti del nucleo familiare contro altri, in un processo infinito che determina rapporti invischiati di natura aggressiva e polemica.
Oggi sembra che se non si è presenti nel web non si esista, non si è nessuno e così, in modo talvolta frenetico, si deve far sapere a tutti che cosa si è mangiato, dove si è stati, quale vestito è stato acquistato, quanti amici o meglio followers ci stanno seguendo e quanti like si sono ricevuti. Tutto diviene pubblico, fermo restando poi che in nome della privacy si ricorra al Garante per far valere un diritto violato. Forse il desiderio nascosto non è tanto quello di condividere ma di fare invidia, di apparire migliori di quello che in realtà si è, di essere come la società ci vuole.
Come sottolinea Paolo Crepet [1], le proprie sofferenze e frustrazioni devono essere messe sui social, condivise e diffuse, quasi in una sorta di confessionale, di comunità terapeutica; tutto deve divenire show, in questo modo portando anche all’emulazione, in una sorta di “effetto megafono” amplificatore.
In tutto questo si intravvede un forte bisogno di frequentazione, di vicinanza, di partecipazione che un tempo si raggiungeva incontrandosi, stando insieme realmente. Lo stare insieme era, in particolare per i ragazzi e gli adolescenti, il modo con il quale costruire la propria identità, imparare le regole dei rapporti interpersonali, sperimentare le varie forma del “prendersi cura” degli altri, da utilizzare poi in quelle che si configurano come “relazioni romantiche”. Era quello anche il comportamento fondamentale per il graduale distacco dal nucleo familiare. Luigi Meneghello in “Libera nos a Malo” scrive [14]: “Stare insieme agli amici è il piacere più grande, davanti al quale tutto il resto impallidisce […] Andare a scuola, fare bene i compiti, erano attività in sé né belle né brutte, ma sgradite perché consumavano tempo; si sciupava tempo perfino a mangiare a tavola a casa. Appena possibile ci si precipitava fuori, ci si trovava con gli amici e solo allora ci si sentiva contenti.”
Con il progredire dell’età si elaboravano criteri per la scelta degli amici (similarità, complementarità, omofilia di stato, di interessi e di valori) e si restringeva il loro numero con relazioni più profonde e con massimizzazione dei benefici reciproci.
Le “amicizie social” rappresentano delle forme di comunicazione per così dire senza voce, che utilizzano un messaggio scritto spesso sintetico e non interattivo, o una voce che può mancare delle caratteristiche tipiche della comunicazione verbale e non verbale.
Ritornare alle modalità di interazione del passato fatte nel giardino di una casa, in un granaio, nella strada di un paese, o utilizzando la cornetta di un telefono appeso al muro non è forse proponibile, ma spazi e momenti di incontro, di dialogo, di confronto e anche di conflitto potrebbero incrementare il benessere psicosociale e costituire buffer di contrasto a condotte devianti.
[1] P. Crepet, Mordere il cielo, Mondadori, Milano, 2024.
[2] E. L. Deci, R. M. Ryan, Intrinsic motivation and self-determination in human behaviour, Plenum Press, New York, 1985.
[3] H. H Kelley, Attribution theory in social psychology, in R. De Beni & All, Psicologia cognitiva dell’apprendimento, Erickson, Trento, 2003.
[4] D. Wechsler, The measurement of adult intelligence, The William & Wilkins Company, Baltimora, 1958.
[5] C. Spearman, General intelligence, objectively determined and measured, The American Journal of Psychology, 1904, 15, 201-293.
[6] L. L. Thurstone, Primary mental abilities, University of Chicago Press, Chicago, 1938.
[7] J. P. Guilford, The Nature of human intelligence, MacGraw Hill, New York, 1967.
[8] H. Gardner, Frames of mind. The theory of multiple intelligence, Basic Book, New York 1983 (Traduzione in Italiano: Formae mentis, Feltrinelli, Milano, 1987).
[9] P. Martin, Storie di errori memorabili, Laterza, Roma-Bari, 2024.
[10] C. R. Rogers, G. M. Kinget, Psicoterapia e relazioni umane, Boringhieri, Torino, 1970.
[11] Household è l’insieme di individui non necessariamente legati da legami di parentela, che vivono sotto lo stesso tetto. Family è l’insieme di individui legati da vincoli di parentela e non necessariamente coabitanti.
[12] J. J. Arnett, Emerging adulthood. A theory of development from the late teens through the twenties, American Psychologist, 2000, 55, 469.
[13] E. Scabini, P. Donati, La famiglia “lunga” del giovane adulto, Vita e Pensiero, Milano, 1988.
[14] L. Meneghello, Libera nos a Malo, Feltrinelli, Milano, 1963.