Botte e risposte con un lettore



Cara Margherita,

ho letto con interesse il numero speciale del CnS, il terzo di quest’anno, intitolato “Come contrastare l’anti-scienza: didattica e non solo”; vorrei, però, esprimere alcune considerazioni personali sui due interventi di Silvano Fuso e di Rollini-Tortorella.

Fuso intitola il suo intervento “Perché l’anti-scienza ha successo?” e fa due esempi: Einstein, per dire che anche un grande scienziato può essere vittima di un atteggiamento “psicologico”, e Lovelock, accusandolo di appoggiare una visione “teleologica” della Natura.

La frase di Einstein (non unica fra gli scienziati dell’epoca), scritta privatamente a Born nel dicembre 1926, culminò nel 1935 con la pubblicazione di un famoso lavoro sul cosiddetto “paradosso EPR”, scritto insieme a Podolski e Rosen, in cui Einstein e co-autori concludono che: Pur avendo così dimostrato che la funzione d’onda non fornisce una descrizione completa della realtà fisica, abbiamo lasciato aperta la questione se tale descrizione esista o meno. Riteniamo, tuttavia, che tale teoria sia possibile.

Le cose rimasero così non risolte fino al 1964, ben dopo la morte di Einstein. Fu solo allora che una risposta tecnica fu data ai dubbi di Einstein con la pubblicazione del lavoro di J. S. Bell che dimostrava, tramite le sue famose disuguaglianze, la conflittualità fra teorie a variabili nascoste locali e la Meccanica Quantistica. Gli esperimenti di A. Aspect, realizzati a partire dal 1981, dunque quasi 60 anni dopo la frase di Einstein, risolsero definitivamente la questione introducendo però la realtà dell’entanglement. Dunque, non atteggiamento “psicologico” di Einstein, ma un problema irrisolto della fisica fino a lavori teorici e sperimentali, che arrivarono dopo molti anni.

Una situazione analoga riguarda Lovelock, citato in una parte successiva dell’articolo, quando si parla di deep ecology; l’autore dice: Secondo quest’ipotesi, la Terra è un enorme organismo vivente, in cui ogni parte è strettamente connessa a tutte le altre. Il nome Gaia, attribuito da Lovelock a questo organismo, deriva da quello dell’antica dea della Terra.

James Lovelock è certamente una figura controversa, ma più per le sue posizioni sul cambiamento climatico e i modi di reagire a esso piuttosto che per la teoria di Gaia che Lovelock non ha mai rinnegato o modificato. La polemica citata da Fuso non è con il suo modello Gaia, una teoria che aveva sviluppato insieme con la biologa Lynn Margulis, ma sulle misure di adattamento.

Gaia è un modello che considera la Ecosfera terrestre come un unico “sistema”, descrivendone in dettaglio alcuni dei meccanismi di retroazione, esprimibili tramite equazioni differenziali non-lineari; questa parte matematica costituisce il cuore della teoria e fu presentata la prima volta proprio con il famoso modello del “pianeta delle margherite” la cui estensione controlla l’albedo planetaria. Nulla di divino o religioso, ma la scoperta di come un sistema complesso e lontano dall’equilibrio reagisce alle sollecitazioni esterne; il sistema ha quel comportamento che è effettivamente teleologico, ossia finalizzato, con un fine ben preciso perché è “fatto così”, è costruito in un certo modo con determinati meccanismi interni automatici; come è automatico il comportamento omeostatico dei mammiferi, i quali non “vogliono” controllare la temperatura, ma sono fatti in modo da farlo, da realizzare un controllo omeotermo.

E veniamo ora all’articolo firmato da Rollini e Tortorella; la prima parte dell’articolo mi è piaciuta perché sottolinea che la chemofobia è la paura irrazionale delle sostanze chimiche (di sintesi), introducendo il concetto che la reazione negativa delle persone è riguardo alle sostanze chimiche di sintesi; questo è un buon punto di partenza. Tuttavia, subito dopo l’articolo prende una piega a mio avviso discutibile; a proposito dell’origine della chemofobia gli autori scrivono: L’ipotesi che però riscuote maggiori consensi ha identificato una data simbolica molto precisa: il 1962, con l’uscita del libro Primavera Silenziosa di Rachel Carson. Curiosamente è lo stesso libro con cui si fa nascere l’ambientalismo moderno.

Il libro della Carson denunciò l’uso e l’abuso del DDT, un pesticida che era allora usato in modo generale e le cui conseguenze ambientali erano drammatiche, talmente pesanti che l’accordo di Stoccolma lo ha escluso dall’uso generale, insieme alle diossine e ai PCB; dunque, il “curiosamente” lo capisco poco.

Come non capisco come mai la descrizione dei problemi di grossi incidenti o di pesanti inquinamenti di origine industriale si fermi al 1984, quasi che quella stagione “delle origini della chemofobia” si fosse chiusa per sempre. Dopo si è aperta la stagione delle microplastiche e dei PFAS, dei pesticidi ed erbicidi pericolosi per le api, quella che stiamo vivendo adesso e che non mi appare meno grave della precedente. Non si tratta più di “incidenti di percorso”, ma di strategie vere e proprie che purtroppo ci coinvolgono pesantemente. L’industria chimica si è dotata di progetti efficaci di sicurezza interna come il Responsible care, ma, nel contempo, non ha cambiato le proprie strategie ambientali complessive.

Si parla di “eroi” nell’articolo, ma non vengono nominati gli eroi per antonomasia della chimica moderna, i premi Nobel Crutzen, Sherwood Rowland e Molina che scoprirono il buco dell’ozono causato dai CFC e ne diffusero la conoscenza e l’importanza; né si nomina l’iniziativa, tardiva ma positiva, che la sola Europa ha messo in campo per contrastare i problemi di origine chimico-ambientale, ossia il REACH.

Sarebbe stato interessante parlare della chimica “verde”, ossia una serie di criteri da usare nelle nuove sintesi, e di etica del chimico, un problema ampiamente sottovalutato, ma estremamente importante sul quale la SCI ha attivo un gruppo di lavoro, e forse dovuto al fatto che il chimico non ha un giuramento equivalente a quello di Ippocrate per i medici.

Ecco questo è il problema! Il chimico dovrebbe essere un attento guardiano della qualità ambientale e non lasciare questo compito ai movimenti ambientalisti, dovrebbe essere il primo, come fecero Crutzen e colleghi, a denunciare i problemi; questa è una delle basi materiali della chemofobia, la causa dell’immagine contraddittoria che la Chimica dà di sé al mondo; dobbiamo guardarci allo specchio e riprendere la tradizione di Crutzen, I care: il mondo in cui viviamo è nella nostra responsabilità, Gaia è il ramo su cui siamo seduti.

Claudio Della Volpe

docente di Chimica Fisica Applicata e coordinatore del blog
La Chimica e la Società

La risposta di Silvano Fuso

Ringrazio il Prof. Della Volpe per le sue osservazioni, alle quali replico brevemente.

Riguardo a Einstein, è vero che fino al 1981 non vi è stata la possibilità di chiarire sperimentalmente se le obiezioni alla Meccanica Quantistica di Einstein, espresse attraverso il paradosso EPR, fossero o no fondate. Però i tentativi di Einstein di dimostrare l’incompletezza della Meccanica Quantistica erano già iniziati prima del 1935, fin dalle Conferenze Solvay del 1927 e del 1930. In quelle occasioni Einstein si era concentrato sulle relazioni di indeterminazione di Heisenberg con la speranza di poterle eludere. Ma Niels Bohr riuscì efficacemente a confutare le sue argomentazioni. Questo indusse Einstein a cambiare strategia e a proporre il cosiddetto paradosso EPR. Mi sembra si possa ravvisare in Einstein un’ostinatezza che, come sottolineato da diversi autori, denota un atteggiamento psicologico legato a una sua certa visione “classica” della realtà fisica.

Riguardo a Lovelock, è indubbio che vi sia stato un dibattito scientifico sull’ipotesi di Gaia e, in una nota del mio articolo, indico anche un volume di approfondimento. In ogni caso ho citato Lovelock non per discutere la sua ipotesi di Gaia, bensì perché egli stesso denunciò una deriva ideologica di stampo religioso di un certo tipo di ambientalismo che lui stesso aveva contribuito ad alimentare, mostrando capacità autocritiche e notevole onestà intellettuale.

La risposta di Ruggero Rollini e Sara Tortorella

Quello che abbiamo riportato nella review e poi nell’articolo è ciò che si trova in letteratura: c’è una soverchiante quantità di articoli (va detto, di basso valore storico e sociologico) che individua come data simbolo la pubblicazione di Primavera Silenziosa. Forse non abbiamo chiarito il concetto di “curiosamente”. La parte curiosa è che la pubblicazione abbia causato una cosa preziosissima come la nascita dell’ambientalismo moderno (ha giustamente denunciato gli enormi impatti che l’abuso della chimica stavano causando) e al tempo stesso la chemofobia, che – se vogliamo – può essere intesa come l’estremo opposto.

Quel periodo (che è vero, non è mai del tutto finito) serve a indicare un punto di rottura: una frattura tra società civile e industria chimica, mai più ricucita. Ci serviva anche a dire che la chemofobia è sì una paura irrazionale delle sostanze chimiche (di sintesi), ma che ha basi razionali più che giustificabili. Una sana titubanza nei confronti dei prodotti dell’industria chimica è doverosa: il contrario della chemofobia non è una fiducia cieca.