Insegnare le scienze
per costruire un pensiero critico
e combattere l’anti-scienza1

Eleonora Aquilini

Presidente della Divisione di Didattica della Società Chimica Italiana

e-mail: ele.aquilini6@gmail.com

Indice

1. Introduzione

2. L’insegnamento delle scienze

3. La conoscenza consapevole

4. Capire le ragioni dell’anti-scienza



Abstract. The study of science should promote openness and a critical spirit, while especially today in science teaching the trivialization of academic knowledge is increasingly evident as the educational level is lowered: specialized language is used, and the important steps that lead to understanding the problem are omitted. Science teaching is thus reduced to the reproduction of sentences that often have no meaning for the student.

Dogmatism, which accompanies this way of teaching and disseminating science, is the main cause of the success of anti-scientific ideas. Schools have an important role in changing the image of science in the citizen’s perception of it. Acquiring the way of thinking, which is called scientific, also means perceiving doubt as a value and not as a destabilizing uncertainty from which to escape.

Keywords: Pensiero critico; didattica delle scienze; dialogo per costruire conoscenza; conoscenza consapevole


1. Introduzione

“Circa cinquecento anni prima dell’era cristiana si verificò nella Magna Grecia l’avvenimento più bello che registri la storia universale: la scoperta del dialogo. Fedi, certezze, dogmi, anatemi, preci, divieti, ordini, tabù, tirannie, guerre e glorie opprimevano l’orbe; un pugno di greci contrasse, non sapremo mai come, la singolare abitudine di conversare. Dubitarono, persuasero, dissentirono, mutarono d’opinione, differirono. Forse li soccorse la loro mitologia, che era come lo shinto, un insieme di favole imprecise e di cosmogonie mutevoli. Quelle disperse congetture furono la prima radice di ciò che oggi chiamiamo, non senza pompa, metafisica. Senza quei greci postisi a discorrere, la cultura occidentale sarebbe inconcepibile…”2

Il rispetto degli altri non si insegna con le parole, è un modo di relazionarsi che prevede educazione e sentimento. L’educazione è anche quella formale: il saluto, il chiedere permesso, chiedere scusa; il sentimento sta nella benevolenza, nella gentilezza non formale, quella che si mette dalla parte dell’altro, quella che accoglie la persona che abbiamo davanti. Questo modo di porsi lo possono insegnare le famiglie non con le parole, ma con modi di fare che investono la quotidianità, altrimenti è forma che può nascondere intolleranza e sostanziale disinteresse nei confronti degli altri. Imparare a scuola il rispetto degli altri avviene con le stesse modalità con le quali si realizza in famiglia, ovvero con l’esempio e il “modo di fare”: la sola differenza è che a scuola l’esempio, il “modo di fare” investono anche e soprattutto le discipline e il modo con il quale la conoscenza viene proposta e vissuta in classe. Se il modo di fare le scienze è autoritario, distaccato e incomprensibile allora è un modo di fare che, paradossalmente, insegna la maleducazione perché non c’è il rispetto di chi deve apprendere. L’alunno, ripetendo ciò che l’insegnante vuole, senza averlo compreso, impara anche che è lecito imporre i propri punti di vista, che capire è secondario, che il dialogo non conta.

Si dice, si dichiara che lo studio delle scienze promuove apertura e spirito critico. Ma è sempre così?

La scuola di ieri proponeva, e tutt’oggi spesso continua a proporre, come principale elemento strutturante delle menti, la logica delle discipline nella versione usuale che consiste nell’insieme dei risultati acquisiti. Questa logica coincide con le modalità di organizzazione di un determinato sapere affinché chi deve appropriarsene tramite lo studio, sia informato in modo rapido dei risultati oggi accreditati. Si hanno così una serie di definizioni, spesso date come dogmi, che divengono sempre più raffinate e complesse a mano a mano che le conoscenze (teorie, leggi) riescono a stabilire nuove relazioni fra gli elementi di partenza. L’alunno entra più o meno faticosamente in tale logica ordinando il suo pensiero sullo schema che organizza la disciplina. La strutturazione del pensiero avviene imparando a ricalcare la sequenza con cui vengono presentati i risultati della disciplina: definizione degli elementi in gioco, elaborazione contestuale, deduzione della nuova definizione. Questa strutturazione del pensiero “sui calchi di gesso” della disciplina adulta, si può chiamare formazione? Cosa c’è di democratico in questo modo di procedere?

Che cosa ha a che fare questa logica con la psicologia degli allievi, dei bambini, degli adolescenti?

Prima degli anni Sessanta del secolo scorso questo schema di acquisizione di conoscenze veniva accettato dai pochi che continuavano a studiare, non perché allora fosse valido anche psicologicamente, ma perché in generale il principio d’autorità (incarnato dalla famiglia, dagli insegnanti, dalla composizione della società in classi ben definite) non era messo in discussione quasi da nessuno. L’imposizione dall’alto delle varie forme del sapere era solo una delle manifestazioni di quell’autorità che nessuno discuteva. Nella società di oggi, il principio d’autorità agisce ben poco a regolare le nostre azioni. È vero che, accanto a genitori e figli lontani dall’idea di cultura, ci sono tante famiglie che riconoscono il “valore all’istruzione”, ma i figli di oggi generalmente non accettano più le modalità di trasferimento dall’alto del sapere della disciplina, con la logica di cui abbiamo parlato. Il principio d’autorità non risuona più nella società in cui viviamo e questo tipo d’insegnamento non funziona per nessuno, neanche per le cosiddette eccellenze. Il logico della disciplina e lo psicologico di cui parla Dewey non andavano d’accordo ieri e non vanno, a maggior ragione, d’accordo oggi.3 Come lui stesso dice:4

Qualunque insegnante sensibile ai modi in cui il pensiero opera nell’esperienza naturale del ragazzo normale eviterà senza difficoltà tanto l’identificazione del logico con un’organizzazione bell’e fatta della materia di studio, quanto l’idea che per sfuggire questo errore non occorra prestare alcuna attenzione alle considerazioni logiche (…). Vedrà che lo psicologico e il logico, invece di essere opposti o anche indipendenti l’uno dall’altro, sono fra loro connessi come il primo e l’ultimo, o conclusivo, stadio dello stesso processo.

Lo psicologico e il logico ci sembra si siano ulteriormente allontanati nella pratica scolastica, nonostante che dagli anni Sessanta del 1900 in poi si sia dato sempre più valore agli aspetti psicologici dell’educazione. La democratizzazione della scuola, che in Italia è iniziata con l’unificazione della scuola media inferiore, non ha infatti portato ad un’effettiva democratizzazione degli insegnamenti. I contenuti sono rimasti inintelligibili per i più, non sono stati rivisti in senso psicologico, ossia in funzione dell’età degli alunni; la psicologia, che è entrata nell’educazione in modi diversi, non è tuttavia servita generalmente per rivisitare le discipline e riorganizzarle pensando agli alunni.

2. L’insegnamento delle scienze

Nell’insegnamento delle scienze la banalizzazione dei saperi accademici è sempre più evidente a mano a mano che il livello scolare si abbassa e il libro di testo, che di solito è costruito su questi schemi, usa il linguaggio specialistico, omettendo i passaggi (complicati) che portano alla comprensione del problema. L’insegnamento delle scienze si riduce nella riproduzione di frasi che non hanno significato.

Caratteristico di tutti i livelli di scuola, soprattutto nel primo ciclo, è il fatto che viene insegnato tutto a tutti, trovando le parole giuste, senza fare scelte nell’ambito della disciplina, senza considerare ciò che è comprensibile a una determinata età, senza dare importanza all’ordine cronologico con cui sono nate le idee, alla loro genesi.

La metodologia delle cinque fasi proposta per il primo ciclo, e cioè esecuzione dell’esperimento, descrizione scritta e orale, discussione collettiva, produzione condivisa,5 ha l’obiettivo fondamentale di contribuire, nel fare scienze, allo sviluppo di capacità osservativo-logico-linguistiche che sono la base del pensiero critico. Avere riferimenti importanti, come Dewey, Piaget, Vygotskij e Bruner, comporta una seria coerenza di scelte didattiche.


Immagine che contiene Viso umano, uomo, persona, occhiali

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In altre parole, se si sceglie di lavorare con le cose, perché queste si vedono e si toccano, poi la spiegazione dei fenomeni deve essere conseguente: i ragionamenti devono riguardare gli aspetti percettivi e operativi delle cose. I ragionamenti che sono ipotesi, riflessioni individuali e collettive, portano a conclusioni che sono significati condivisi. Un modo per connettere “il logico” e “lo psicologico”, di cui parla Dewey, oltre alla scelta dei contenuti adeguati all’età degli scolari, per fare “esperienze” educative significative, è quello dell’utilizzo della dimensione narrativa. Nel caso delle scienze, con riferimento alla scuola del primo ciclo, è quindi importante descrivere e dare una propria interpretazione del fenomeno che si sta osservando oralmente e per scritto. L’atto dello scrivere e del riflettere connette il mondo esterno con il proprio mondo interiore. Dalla riflessione dell’uno sull’altro nascono i significati.

La dimensione linguistica, sia individuale che collettiva, è uno strumento imprescindibile per far sì che lo studente costruisca la propria conoscenza e realizzi il passaggio da rappresentazioni intuitive, irriflessive e asistematiche a rappresentazioni consapevoli e connesse.6 Ci sono, però, due condizioni imprescindibili da rispettare, e cioè che la discussione si riferisca a fenomenologie, a problemi, a concetti, che siano alla portata delle strutture cognitive dei discenti, e che le ipotesi formulate siano sottoponibili a conferma sperimentale, o siano comunque controllabili dagli studenti; tutto ciò implica, come abbiamo già affermato, scelte adeguate dei contenuti.

Questa metodologia ha sicuramente di per sé una valenza pedagogica, ma ce l’ha solo in relazione ai contenuti scelti. Tornando al punto di partenza del ragionamento, il logico e lo psicologico, di cui parla Dewey, possono essere ricongiunti scegliendo argomenti adatti all’età dei discenti e usando metodologie che permettano di tradurre le osservazioni in parole e in frasi che contengano il dialogo che c’è stato con sé stessi e con gli altri.

3. La conoscenza consapevole

La metodologia che è stata descritta, e che implica la scelta di contenuti idonei, è un modo per sviluppare una conoscenza consapevole. Questa consapevolezza, che è poi coscienza di noi stessi, in relazione alle persone e alle cose che ci circondano, dovrebbe essere la mira, lo scopo dell’educazione. Pensando a una persona che acquisisce conoscenze scientifiche formali, ossia strutturate dalla scuola, fino al biennio della scuola secondaria di secondo grado, come può questo modo di insegnare e apprendere esserle utile per la comprensione del dibattito su argomenti scientifici complessi, sui quali può essere chiamato a esprimere un’opinione? Più in generale, come può questa modalità di insegnare essere un antidoto verso le opinioni non fondate di manipolatori, falsi profeti e imbonitori?

Nel caso che le conoscenze scientifiche necessarie per esprimere un parere siano al di là del nostro dominio di comprensione (per esempio, i vaccini o l’omeopatia) e nel caso del giudizio che possiamo dare di argomenti generali che non conosciamo pienamente (ad esempio, la politica economica) siamo ugualmente smarriti e disorientati. Non c’è differenza fra i due tipi di problemi rispetto alla percezione che ne abbiamo. Poiché tutti analizziamo il mondo, come sostiene Daniel Stern in Momento presente, in termini di intenzioni e, quindi, di significati emotivi oltre che cognitivi,7 possiamo essere facili prede di chi cattura la nostra attenzione con argomentazioni che vanno al di là della logica, al di là della razionalità.

Il valore della modalità didattica proposta, basata sul confronto e sul dialogo con sé stessi e con gli altri, può aprire alla riflessione e al pensiero critico, perché i ragionamenti hanno sempre un termine esterno su cui ci si confronta: il fenomeno. Detto in altri termini, c’è sempre un terzo elemento fra me e te: il fatto che stiamo studiando. Il fenomeno rimane quello che è, al di là delle nostre intenzioni (il vapore che si forma quando l’acqua viene riscaldata, le nuvole che sono in cielo). È il terzo elemento che regola il dialogo, perché su di esso cerchiamo un accordo, sulla sua interpretazione dobbiamo convergere.

Io e te interpretiamo il fenomeno con le nostre parole, ma queste, per essere plausibilmente accettate da entrambi, devono essere messe a confronto con cosa il fatto è, indipendentemente da noi. È questo che costringe le parole a rimanere aderenti alla realtà e a non volare verso mondi alternativi. Il nostro dialogo non è asettico, è, come tutti i dialoghi, carico di intenzioni e di emotività, di riconoscimenti, di rispecchiamenti, però arriva all’accordo perché ognuno riconosce la parte che l’altro ha avuto nel giungere ad una conclusione. Il riconoscimento del contributo dell’altro alla comprensione comune genera rispetto e senso di solidarietà.

Così, quel che abbiamo l’ambizione di insegnare ai nostri alunni è che, nel momento in cui siamo chiamati a esprimere opinioni verso ciò che non conosciamo in profondità, dovremmo cercare nei dialoghi che ascoltiamo il riscontro con i fatti e avere, quando è possibile, la pazienza e la voglia di cercarli e conoscerli. Possiamo in questo modo ricostruire e costruirci narrazioni vere che, al contrario delle narrazioni false, sono frutto di dialogo, di confronto con quello che sta dentro di noi, ma anche e soprattutto al di fuori di noi.

4. Capire le ragioni dell’anti-scienza

È importante capire come mai il pensiero antiscientifico abbia preso così piede e visibilità soprattutto dopo la pandemia. Come scrive Massimo Bucciantini in Siamo tutti galileiani, questa mancanza di fiducia verso la scienza ha le sue motivazioni nel modo in cui questa viene comunicata.8

Sono profetiche le parole che Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica, ha pronunciato nella lectio all’Università di Roma La Sapienza, in cui si chiede se una delle ragioni del fenomeno non dipenda anche da una cattiva divulgazione scientifica:9

È possibile che questa sfiducia di massima nella scienza … sia dovuta anche a una arroganza degli scienziati che presentano la scienza come sapienza assoluta, rispetto agli altri saperi opinabili, anche quando non lo è affatto. … A volte i cattivi divulgatori presentano i risultati della scienza come una superiore stregoneria le cui motivazioni sono comprensibili solo agli iniziati. In questo modo chi non è scienziato può essere spinto in una posizione irrazionale di fronte a una scienza percepita come magia inaccessibile e, quindi, a preferire altre speranze irrazionali: se la scienza diventa una pseudomagia, perché non scegliere una magia vera?

È quindi il dogmatismo che accompagna il modo in cui la scienza viene insegnata e divulgata che occorre combattere per far sì che la motivazione del successo delle idee antiscientifiche venga meno. La scuola ha un ruolo importante in questa trasformazione dell’immagine della scienza, nella percezione che il cittadino ne ha. Acquisire quella modalità di pensiero che chiamiamo scientifico significa anche percepire il dubbio come un valore e non come un’incertezza destabilizzante da cui fuggire.


  1. 1 Questo contributo è una rielaborazione dell’articolo “Apprendere le scienze per dubitare, dialogare, dissentire”, pubblicato nel volume I di Una scuola per la cittadinanza (a cura di Mario Ambel), Varazze, PM edizioni, 2020.

  2. 2 J. L. Borges, Altre conversazioni, Milano, Bompiani, 2003, p. 5.

  3. 3 J. Dewey, Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1994.

  4. 4 Idem, pp. 153-154.

  5. 5 C. Fiorentini, Rinnovare l’insegnamento scientifico, Roma, Aracne, 2018, pp. 221-255.

  6. 6 M. Piscitelli, Come la penso, Scuolafacendo, Roma, Carocci, 2006.

  7. 7 D. Stern, D. Sarracino, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005.

  8. 8 M. Bucciantini, Siamo tutti galileiani, Torino, Einaudi, 2023.

  9. 9 https://web.uniroma1.it/specialrestauro/en/tags/lectio-magistralis-giorgio-parisi