Perché l’anti-scienza ha successo?
Silvano Fuso
divulgatore scientifico e saggista
e-mail: silvanofuso@tin.it
Indice
Abstract. A worrying anti-scientific attitude is quite widespread in our society. The recent coronavirus pandemic has highlighted this well. Analyzing and understanding the causes of this phenomenon is surely the first step in trying to counter it.
Keywords: Anti-scienza; bias cognitivi; cherry picking; intenzionalismo; deep ecology
La vignetta mostrata sotto, che circola da diversi anni in rete, mette a confronto il metodo scientifico con il cosiddetto “metodo creazionista”, ovvero la posizione di coloro che, rifiutando la teoria di Darwin, sostengono posizioni, appunto, creazioniste, interpretando alla lettera le sacre scritture.
Nel metodo scientifico ci si chiede “Questi sono i fatti. Che conclusione possiamo trarne?”. Nel metodo creazionista, viceversa, si legge: “Questa è la conclusione. Che fatti possiamo trovare per supportarla?”.
La vignetta si può estrapolare e il suo contenuto può essere esteso, in generale, a tutta l’anti-scienza.
In qualsiasi posizione antiscientifica o pseudoscientifica, infatti, si aderisce in maniera aprioristica a determinate idee e, solo a posteriori, si ricercano possibili pezze giustificative per corroborarle, spesso attuando il cosiddetto cherry picking. Selezionando cioè i dati che sembrano sostenere le idee cui si è aderito e scartando deliberatamente quelli che le contraddicono.
L’esatto contrario di ciò che si fa nella scienza: si cerca di raccogliere nel modo più obiettivo possibile tutte le evidenze empiriche e, che ci piacciano o meno, da esse si parte per costruire una teoria interpretativa. Teoria che, per sua natura, è necessariamente sempre provvisoria. Se in futuro, infatti, si scoprissero nuovi dati sperimentali che dimostrassero in modo convincente l’inadeguatezza della teoria, dovremmo avere il coraggio di buttarla via e sostituirla con un’altra. Guardando dal punto di vista storico l’evoluzione della scienza, ci rendiamo facilmente conto che questo è sempre accaduto.
Naturalmente spesso vi sono state inevitabili resistenze psicologiche nel sostituire teorie consolidate da tempo e accettate all’interno della comunità scientifica. Questo spesso avviene a livello individuale. Anche gli scienziati sono esseri umani, con le loro emozioni e debolezze. Si può pertanto capire che alcuni di essi si affezionino a certe convinzioni e trovino difficile modificarle. Ma la comunità scientifica nel suo complesso, su tempi più o meno lunghi, accetta le nuove idee facendo progredire la conoscenza.
Vi sono esempi illustri di scienziati che hanno manifestato resistenza nel cambiare le proprie posizioni. Emblematico è il caso di Albert Einstein (1879 - 1955) nei confronti della nuova visione della realtà introdotta dalla meccanica quantistica. Pur avendo contribuito a svilupparle, le nuove concezioni probabilistiche introdotte dalla meccanica quantistica non convinsero mai fino in fondo Einstein. Legato psicologicamente alla visione deterministica, tipica della fisica classica, Einstein ritenne sempre la meccanica quantistica una teoria incompleta ed è rimasta celebre la sua affermazione secondo la quale “Dio non gioca a dadi con l’universo”. Il tempo, come è noto, gli ha dato torto.
Le motivazioni che portano qualcuno, scienziato o no, ad aderire a certe idee sono le più svariate.
Il nostro cervello non è affatto una tabula rasa che verrà progressivamente riempita dall’esperienza e dall’insegnamento che riceveremo. Fin dalla nascita possediamo modelli innati che ci consentono di fornire un’interpretazione di quello che ci accade intorno. Alla base di queste interpretazioni vi è l’applicazione inconsapevole di alcune procedure rapide ed economiche, ma che spesso possono condurre a valutazioni errate.
Gli psicologi cognitivi e i neuro-scienziati ci hanno infatti insegnato che il nostro cervello, per trovare risposte rapide, utilizza le cosiddette euristiche.1 Si tratta di scorciatoie mentali, che abbiamo acquisito evolutivamente. Esse spesso sono state utilissime per la sopravvivenza della specie, ma, altrettanto spesso, ci fanno commettere errori. Da ciò derivano i famosi bias cognitivi che condizionano moltissimo il nostro modo di pensare e di trarre conclusioni. Queste erronee valutazioni sono evidenti nel pensiero magico, nelle superstizioni, nelle cosiddette medicine alternative e, in generale, nelle pseudoscienze, ma sono sempre in agguato anche nell’ambito scientifico e anche la persona più razionale non ne è affatto immune.
Un ruolo importantissimo è svolto dall’ambiente culturale in cui viviamo, dal quale assorbiamo la quasi totalità di quelle che poi diventano le nostre idee pregresse. Da qui si capisce l’estrema importanza della formazione e dell’educazione precoce al pensiero razionale.
Le pseudoscienze e certe derive antiscientifiche appaiono convincenti perché soddisfano la nostra intuizione immediata e concordano con i nostri bias cognitivi. Tuttavia, noi oggi viviamo in un ambiente molto diverso da quello in cui ci siamo evoluti biologicamente e i problemi che dobbiamo affrontare sono molto più complessi di quelli del passato. Gilberto Corbellini, a tale proposito, fa un interessante paragone e afferma:
Se poi l’ambiente cambia e ci ritroviamo a vivere in un mondo dove sarebbe meglio usare la razionalità calcolatoria, dobbiamo pagare un prezzo perché la selezione naturale non sa prevedere il futuro. Infatti, non l’ha previsto. Per cui ci troviamo a subire gli effetti del mismatch, del disallineamento: come nel caso delle malattie metaboliche, dovute al fatto che la nostra fisiologia è rimasta dettata sugli stili alimentari e di vita del Pleistocene, mentre oggi disponiamo di cibi ipercalorici di cui siamo ancora golosi, nonostante non siano più così necessari, e facciamo una vita prevalentemente sedentaria, per cui rischiamo di diventare obesi o sviluppare malattie come il diabete. Mutatis mutandis, anche le forme del pensiero umano che si sviluppano spontaneamente pagano lo stesso scotto”.2
Un’euristica particolarmente potente, precoce e universale è la tendenza a vedere il mondo in termini di scopi (teleologia) e disegni intenzionali, stabiliti da agenti animati, ai quali spesso viene conferita una natura metafisica. Numerosi esperimenti hanno mostrato che i bambini tendono spontaneamente ad attribuire finalità non solo agli artefatti umani (“le forbici servono a tagliare”) e alle parti degli esseri viventi (“gli occhi servono a vedere”), ma anche a fenomeni e oggetti naturali inanimati (“le nuvole servono a far piovere”). Tale tendenza è stata chiamata dalla psicologa Deborah Keleman (https://www.bu.edu/psych/profile/deborah-kelemen-phd/) teleologia promiscua, in quanto genera una confusione di domini.
I vantaggi evolutivi di tale tendenza sono evidenti: meglio cauti che morti. Se si vede un ramo spezzato è più prudente considerarlo il segno del recente passaggio di un predatore o di un nemico piuttosto che il risultato di un evento fisico naturale, come il vento. Lo psicologo Justin Barrett (https://en.wikipedia.org/wiki/Justin_Barrett) ha osservato:
Se scommetti che quel qualcosa è un agente e non lo è, ci perdi poco. Ma se scommetti che quel qualcosa non è un agente e poi si rivela esserlo, potresti essere diventato il suo pranzo.3
La teleologia promiscua spiega, tra l’altro, come mai tante persone hanno difficoltà ad accettare l’evoluzionismo biologico e restano ancorate a posizioni creazioniste.4
Altri studi evidenziano l’esistenza di un dualismo intuitivo che ci fa trattare come entità separate gli oggetti fisici e gli oggetti mentali, con la conseguenza di poter concepire corpi privi di mente e menti prive di corpo. Da tale dualismo deriverebbero tutte le credenze soprannaturali: divinità, spiriti, sopravvivenza dopo la morte. Si evidenzia, inoltre, una “ipertrofia del sistema che tratta gli oggetti animati” con la conseguente tendenza a inferire e attribuire desideri e obiettivi anche laddove questi non esistono affatto.
La scienza, per sua natura, si occupa di entità empiricamente rilevabili. Cerca di comprendere la realtà nell’ambito del “conoscibile” senza pretendere di raggiungere verità assolute, nella consapevolezza che ogni nuova scoperta non fa altro che allargare la frontiera della realtà a noi sconosciuta. La religione, al contrario, si occupa (o dovrebbe occuparsi) di questioni metafisiche che sfuggono a ogni possibilità di indagine empirica.
Se entrambe si limitassero al proprio dominio di competenza potrebbe essere possibile una pacifica convivenza. È ovvio che la scienza lascia scoperti numerosi settori della nostra esistenza: nulla ci dice infatti sul senso della vita, su quello della realtà in cui viviamo e su tutte quelle cose che appartengono alla sfera puramente umana o, se si vuole, spirituale. In questi settori possono trovare spazio risposte di tipo metafisico che possono svolgere un ruolo consolatorio e migliorare l’esistenza dei singoli individui, o per lo meno di coloro i quali trovano deprimente vivere senza certezze assolute. Come ebbe a osservare John Stuart Mill (1806 - 1873), nei suoi Saggi sulle religioni:
Finché la vita umana sarà inferiore alle aspirazioni degli uomini vi sarà un desiderio insaziabile per cose superiori, che trova la sua più ovvia soddisfazione nella religione. Finché la vita terrena sarà piena di sofferenze vi sarà necessità di consolazioni, che la speranza del Cielo offre agli egoisti, e l’amor di Dio alle persone miti e riconoscenti.5
Si tratta ovviamente di scelte puramente soggettive in cui l’opinione del singolo è sovrana. Significativa a tale proposito è la posizione di un noto scettico e razionalista, il matematico americano Martin Gardner (1914 - 2010), che in un’intervista del 1997 affermò:
Il saggio che cito più spesso a difesa del fideismo è La volontà di credere di William James. In sostanza, James afferma che, se si hanno forti ragioni emotive a credere ad un’affermazione metafisica, e la stessa non è definitivamente contraddetta dalla scienza o da qualche argomentazione logica, allora si ha il diritto di compiere il cosiddetto salto della fede se questo procura una sufficiente soddisfazione. Questa posizione fa imbestialire gli atei perché non possono più discutere con te, così come non possono discutere del fatto che ti piaccia o meno la birra. Per me è tutta una questione emotiva.6
È interessante sottolineare la condizione posta da James e da Gardner: se si hanno forti ragioni emotive si può credere a un’affermazione metafisica se la stessa non è definitivamente contraddetta dalla scienza o da qualche argomentazione logica. Osserviamo che se un’affermazione può essere contraddetta dalla scienza non è propriamente metafisica.
Purtroppo, però, in alcune forme di religiosità si accettano affermazioni che non sono affatto propriamente metafisiche e che entrano inevitabilmente in rotta di collisione con la scienza e la logica. Questo porta spesso a intraprendere dure battaglie contro le concezioni scientifiche che contrastano con le proprie convinzioni. Se ci si limitasse a criticare certe derive metafisiche della scienza, l’intervento potrebbe anche essere legittimo. Capita, infatti, che da certe teorie scientifiche qualcuno tragga conseguenze metafisiche e/o ideologiche ingiustificate. L’esempio più evidente del passato è costituito dal positivismo ottocentesco che aveva elevato la stessa scienza a metafisica, assolutizzando le sue affermazioni. La necessità di non sconfinare dal proprio dominio vale evidentemente per la religione, ma anche per la scienza.
Il problema è che alcuni attacchi alla scienza, da parte di chi ha certe convinzioni religiose, spesso riguardano anche i contenuti della scienza stessa e ciò non può essere in alcun modo giustificato. La storia ci offre numerosi esempi di tali attacchi: il caso Galileo è sicuramente quello più noto. Ma ancora oggi assistiamo, ad esempio, a duri attacchi all’evoluzionismo darwiniano da parte di frange religiose estremiste o alle promettenti ricerche sulle cellule staminali embrionali.
Al di là degli eccessi, tuttavia, alcune diffuse concezioni metafisiche possono aiutare a comprendere un certo atteggiamento antiscientifico. A molta gente infatti rimane difficile accettare l’approccio scientifico perché teme che questo porti a una “arida” visione materialistica del mondo e possa far perdere all’uomo i cosiddetti valori che contraddistinguerebbero la sua natura. Personalmente ritengo questi timori completamente infondati. Non vedo in che modo una visione naturalistica della realtà possa influire sui nostri valori. Ad esempio, l’essere consapevoli del fatto che il suono sia semplicemente un insieme di vibrazioni di diversa frequenza, non rende meno affascinante, drammatico e coinvolgente il Requiem di Mozart. I nostri valori li stabiliamo noi e possiamo sceglierceli come ci pare. Pretendere di trovare i nostri valori nella realtà è una clamorosa illusione, anch’essa inevitabilmente creata dal nostro cervello. Bisognerebbe inoltre evidenziare che la scienza stessa è animata da profondi valori.
La scienza nasce dalla filosofia e un tempo, ad esempio nella Grecia classica, esse non erano affatto distinte. La filosofia era un tentativo di interpretazione della realtà, esattamente come lo è la scienza moderna. Tuttavia, essendosi sviluppata molto prima della scienza, almeno una parte della filosofia porta con sé errori e preconcetti che solo la scienza ci ha aiutato a superare. Ancora oggi, infatti, esistono correnti filosofiche che non solo non riconoscono valore conoscitivo alla scienza, ma la guardano con diffidenza e sospetto.
In Italia esiste, ed è tuttora piuttosto viva anche in campo accademico, una tradizione filosofica di stampo idealista che, partendo da Giambattista Vico (1668-1744) e muovendosi attraverso Benedetto Croce (1866-1952) e Giovanni Gentile (1875-1944), ha costantemente screditato la scienza non riconoscendole alcun carattere conoscitivo e/o valenza culturale. Croce arrivò al punto di scrivere che:
[…] le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia, hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente o addirittura sorridendo confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la meditazione del vero.7
In un altro brano, citando un autore tedesco, Croce paragona le scienze a un Kochbuch, cioè a un libro di cucina, la cui utilità è solamente pratica. Egli, in sostanza, apprezza soltanto quelli che, altrove, chiama li belli comodi della scienza, negando però a essa ogni valenza culturale. Solo le menti universali o profonde potevano accedere alla filosofia e alla storia, cioè alla vera cultura. Invece, gli ingegni minuti si dovevano accontentare d’interessarsi di aritmetica, botanica o altre discipline scientifiche. Croce non si perita di affermare che:
Gli uomini di scienza […] sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all’organismo filosofico-storico.8
Chi parte da certe convinzioni finisce inevitabilmente col rifiutare le conoscenze che la scienza produce, assumendo posizioni antiscientifiche. Ne abbiamo avuto un esempio significativo in occasione della recente pandemia da SARS-CoV-2. Alcuni noti e rinomati filosofi, di stampo idealista, hanno assunto posizioni molto vicine a quelle dei no-vax, facendo affermazioni prive di ogni fondamento fattuale e arrivando a parlare di “invenzione di un’epidemia”. Non limitandosi a esprimere le proprie posizioni, questi filosofi si sono fatti promotori di specifici comitati con lo scopo di orientare l’opinione pubblica. Pur ispirandosi nominalmente al dubbio, tali comitati in realtà facevano trasparire numerosi ed evidenti preconcetti.
Esiste infine una terza corrente di pensiero antiscientifica di stampo ambientalista ed ecologista. Chiariamo subito una cosa. L’ambientalismo è sacrosanto e necessario, ma deve essere basato su solide conoscenze scientifiche e non deve mai scadere nell’ideologia. Purtroppo, invece, molti di coloro che si occupano di ambientalismo sono spesso privi di una adeguata formazione scientifica e, pur non rifiutando esplicitamente la scienza, la fraintendono e la manipolano per sostenere le loro posizioni ideologiche. Naturalmente poi nell’ambientalismo sono coinvolti molti altri aspetti extrascientifici che, in senso lato, potremmo definire politici poiché riguardano la vita di tutti.
L’ambientalismo è strettamente legato all’idea di natura. È un concetto che usiamo abitualmente, ma che, a una riflessione più approfondita, non è affatto semplice da definire,9 perché noi stessi ne facciamo parte: anche quello che noi facciamo quindi può, in ultima analisi, essere considerato naturale. Il significato attribuito al concetto di natura determina a sua volta differenti filosofie di ispirazione ambientalista, che possono assumere sostanzialmente due direzioni. La cosiddetta ecologia di superficie,10 facendo riferimento a ciò che la scienza afferma, sostiene la necessità di modificare le nostre concezioni nei confronti della natura. Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo preservare l’ambiente in cui viviamo poiché da esso dipendiamo.
L’ecologia profonda11 (deep ecology) propone, invece, un radicale cambiamento nella scala dei nostri valori. Lo slogan che caratterizza questa tendenza è quello secondo il quale «il nostro io ecologico non è limitato alla nostra pelle».12 La deep ecology propone sostanzialmente un recupero della visione prescientifica della natura e assume inevitabilmente atteggiamenti antiscientifici, giungendo a una sorta di sacralizzazione della natura. In alcuni autori la critica nei confronti della scienza è esplicita. La scienza viene apertamente accusata di essere all’origine della distruzione della natura. La storica Carolyn Merchant (https://ourenvironment.berkeley.edu/people/carolyn-merchant), ad esempio, nel suo celebre libro The Death of Nature (La morte della natura) del 1979 sostiene che la natura è stata uccisa proprio dalla concezione meccanicistica tipica della scienza.13
Molte posizioni che caratterizzano la deep ecology appaiono estremiste e, in ultima analisi, irrazionali. La sacralizzazione della natura non è dissimile da alcune forme di dogmatismo fondamentalista di carattere religioso. Ad esempio, è oramai diventata una cosa abbastanza comune in certi ambienti ecologisti attribuire a una presunta “vendetta della natura” alcuni eventi calamitosi, attribuendo alla natura una vera intenzionalità, tipica degli esseri senzienti.
C’è anche chi ha cercato di attribuire una veste scientifica a questa ipotesi. Il caso più noto è quello dello scienziato inglese James Lovelock (1919 - 2022) che è autore della celebre “ipotesi di Gaia”. Secondo quest’ipotesi, la Terra è un enorme organismo vivente, in cui ogni parte è strettamente connessa a tutte le altre. Il nome Gaia, attribuito da Lovelock a questo organismo, deriva da quello dell’antica dea della Terra (Γαῖα o Γῆ).
L’ipotesi di Lovelock suscitò fin dall’inizio un grande dibattito e non furono pochi coloro che avanzarono critiche circa la scientificità delle idee in essa contenute.14 Al tempo stesso però moltissime persone la condivisero, affascinate dall’idea di far parte di un organismo superiore. Lovelock ha dedicato alla sua ipotesi numerosi scritti, fra i quali un suo libro del 2006 intitolato enfaticamente The Revenge of Gaia: Earth’s Climate Crisis & The Fate of Humanity (La vendetta di Gaia: la crisi climatica della Terra e il destino dell’umanità).15 I toni utilizzati da Lovelock per denunciare i “peccati” ambientali dell’uomo non sono poi così diversi da quelli utilizzati dai fondamentalisti religiosi.
Lo stesso Lovelock, tuttavia, con molta onestà intellettuale, in un’intervista telefonica rilasciata al canale americano MSNBC, nell’aprile 2012, ha chiesto scusa per aver assunto posizioni eccessivamente catastrofiste. Ed è piuttosto significativo che abbia evidenziato lui stesso un parallelismo tra l’atteggiamento estremista di certi ambientalisti e quello religioso. Scrive infatti:
Accade che la religione verde abbia preso il posto della religione cristiana. [...] Non credo che la gente se ne sia accorta, ma essa ha acquisito la terminologia tipica delle religioni. I verdi usano il concetto di colpa. Questo mostra il loro carattere religioso. Non si possono convincere le persone dicendo loro che sono colpevoli di emettere anidride carbonica nell’aria.16
L’idea di essere una parte di un enorme organismo vivente ha entusiasmato però moltissime persone. Il fascino dell’olismo e la convinzione di essere interconnessi con la natura ha portato molta gente ad abbracciare una vera e propria forma di nuova religiosità più o meno laica. Non sono poche le associazioni di persone che si considerano sacerdoti pagani e seguaci della Dea Gaia.
Il fatto che molta gente attribuisca un atteggiamento intenzionale alla natura e ritenga che essa sia, di conseguenza, in grado di reagire con punizioni alle malefatte umane rientra in un comportamento tipico della mente umana, ben conosciuto dagli psicologi e dagli neuroscienziati. Come già ricordato, è stato, infatti, ampiamente dimostrato che la nostra mente ci porta a individuare atteggiamenti intenzionali anche in fenomeni che ne sono totalmente privi.17 Basti pensare a quando, stizziti, diamo un calcio “punitivo” a una sedia che ci ha fatto inciampare, o a quando litighiamo con il nostro PC “disobbediente”.
La deificazione della natura e il radicamento su posizioni intransigenti ed estremiste porta molti a rifiutare le affermazioni della scienza in nome di una astratta naturalità. Rientrano in questa logica il rifiuto della medicina scientifica e la conseguente esaltazione di terapie ritenute naturali, la nostalgia di un passato idilliaco e di una presunta saggezza perduta, entrambi immancabilmente smentiti dai dati storici, il rifiuto di ogni innovazione scientifica in campo agroalimentare, una diffusa chemofobia, ecc.
Nei paragrafi precedenti abbiamo tentato di individuare alcune cause che possono aiutare a capire il successo dell’anti-scienza, ma naturalmente ve ne possono essere molte altre.
In certe correnti di pensiero la scienza viene identificata con l’establishment, con il potere e, quindi, ciò che essa produce viene guardato con diffidenza e atteggiamento ribelle. La scienza in realtà, per sua natura, è quanto di più lontano possa esistere dal potere e sarebbe opportuno che ci si sforzasse affinché questa consapevolezza diventasse patrimonio di tutti.
Per contro, a volte, certe innovazioni scientifiche vengono demonizzate perché si teme che la loro introduzione possa turbare determinati mercati e mettere quindi a rischio gli interessi di qualcuno.
Questo è accaduto, ad esempio, in campo agroalimentare per gli Ogm, ingiustamente denigrati senza che vi fossero valide ragioni per farlo.18 Recentemente abbiamo assistito a un altro fenomeno analogo a proposito del vino. Giustamente qualche scienziato ha sottolineato che l’alcol etilico è cancerogeno, indipendentemente dalla dose assunta.19 Di conseguenza non ha senso parlare di consumo moderato a rischio zero. Apriti cielo! I grossi interessi che ruotano intorno al settore vitivinicolo hanno portato a reazioni scomposte, a criminalizzare chi ha fatto certe affermazioni e a proporre all’opinione pubblica narrazioni del tutto in contrasto con ciò che la comunità scientifica sostiene.
Si potrebbero citare altri esempi, ma ci fermiamo qui. Riteniamo che analizzare le motivazioni che portano tante persone a rifiutare la scienza sia il primo passo necessario per cercare di risolvere il problema. Il muro contro muro e l’atteggiamento cattedratico e paternalistico non portano ad alcun risultato. Per combattere l’anti-scienza è necessario comprendere le motivazioni del fenomeno. Solo conoscendo le ragioni di chi rifiuta la scienza si può sperare di instaurare un dialogo, con l’auspicio di modificare le sue posizioni.
1 Termine introdotto dallo psicologo Herbert Simon (1916 - 2001). Si veda: D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano 2020.
2 G. Corbellini, Nel paese della pseudoscienza, Feltrinelli, Milano 2019.
3 J. L. Barrett, Why Would Anyone Believe in God? AltaMira Press, Walnut Creek, CA 2004, p. 31.
4 V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice, Torino 2008.
5 J. S. Mill, Saggi sulla religione, Feltrinelli, Milano 2006.
6 Intervista di Michael Shermer a Martin Gardner, Skeptic, 1997, 5(2).
7 B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1967.
8 B. Croce, “Il risveglio filosofico e la cultura italiana”, La Critica, 6, p. 161-168, 1908.
9 Un dettagliato esame della storia dell’idea di natura si trova in: R. Bondì, A. La Vergata, Natura, Il Mulino, Bologna 2015. L’autore ha approfondito queste tematiche nel libro: S. Fuso, Naturale=buono? Carocci, Roma 2016.
10 I principali teorici dell’ecologia di superficie sono John Passmore e Kristin Shrader-Frechette. Si veda, ad esempio: J. Passmore, Man’s Responsibility for Nature: Ecological Problems and Western Traditions, Charles Scriber’s Sons, New York 1974 (trad. it., La nostra responsabilità per la natura, Feltrinelli, Milano 1986); K. Shrader-Frechette, S. Dristen, Environmental Ethics, Boxwood Press, Pacific Grove, 1981.
11 Principali teorici della deep ecology sono Warwick Fox e Arne Naess. Si veda, ad esempio, W. Fox, The Deep Ecology-Ecofeminism Debate and Its Parallels, Environmental ethics, 1989, 11 (1), 5-25; A. Naess, Ecology, Community and Lifestyle: Outline of an Ecosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1989 (trad. it., Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, RED Edizioni, Lodi 1994).
12 A. Naess, Dall’ecologia all’ecosofia, dalla scienza alla saggezza, in M. Ceruti, E. Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 455-462.
13 C. Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica. Dalla Natura come organismo alla Natura come macchina, (trad. it. di Libero Sosio), Garzanti, Milano 1988.
14 Un’analisi dettagliata dell’opera di Lovelock si trova in: R. Bondì, Blu come un’arancia. Gaia tra mito e scienza, Utet, Torino 2006.
15 J. Lovelock, The Revenge of Gaia: Earth’s Climate Crisis & The Fate of Humanity, Allen Lane 2006 (edizione italiana: J. Lovelock, La rivolta di Gaia, Rizzoli, Milano 2006).
16 L. Goldstein, Green ‘drivel’ exposed. The godfather of global warming lowers the boom on climate change hysteria, “Toronto Sun”, 23 giugno 2012: http://www.torontosun.com/2012/06/22/green-drivel.
17 Si vedano, ad esempio, alcune parti del libro: V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice, Torino 2008.
18 Si veda, ad esempio: R. Defez, Il caso OGM. Il dibattito sugli organismi geneticamente modificati, Carocci Roma, 2016.
19 M. Nicolussi Moro, Antonella Viola: «Il vino fa male: chi beve ha il cervello più piccolo. Aperitivo? Con il succo di pomodoro», Corriere della Sera (Corriere del Veneto), 20 gennaio 2023.