COP28: tante fumate nere e una fumata grigia

Margherita Venturi

Cara lettrice e caro lettore,

da poco si è conclusa la COP28 (ventottesima “Conference of Parties” sul Clima dell’ONU) e, come puoi immaginare, non potevo perdere questa ghiotta occasione per condividere con te alcuni miei pensieri.

Il testo finale scaturito dai lavori della conferenza è stato salutato da un grande applauso e, allora, mi sono chiesta cosa ci fosse in questo documento da meritare il largo consenso dei partecipanti.

Per capirlo penso sia giusto fare qualche premessa, o meglio, considerare le stranezze che hanno caratterizzato questa COP.

La prima ha riguardato il luogo scelto per ospitarla: Dubai, una città degli Emirati Arabi Uniti che, grazie al petrolio, da piccolo insediamento nel deserto è diventata una capitale mondiale con grattaceli di dimensioni enormi e dalle forme più ardite, una città in cui con sistemi di climatizzazione forzata, alimentati da petrolio, è possibile sciare in piena estate, quando la temperatura esterna arriva a 45-50 gradi, una città che deve il suo “splendore” al fatto di divorare enormi quantità di combustibili fossili, che sono la causa primaria delle emissioni di CO2, responsabili del cambiamento climatico e del degrado ambientale che è sotto gli occhi di tutti.

Data questa scelta non ci si poteva aspettare nulla di buono.

Altra scelta di dubbio gusto è stata quella del Presidente della COP28: Sultan bin Ahmed Al Jaber, che è contemporaneamente Ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti e Amministratore Delegato della ADNOC-Abu Dhabi National Oil Company, una delle più grandi compagnie produttrici di energie fossili al mondo, e che, infatti, per non smentirsi, ha cominciato i lavori della conferenza con queste frasi “non c’è nessuna prova scientifica della necessità di rinunciare ai combustibili fossili e “senza il petrolio l’umanità tornerebbe nelle caverne”.

Affidare la presidenza della conferenza, durante la quale si deve discutere sui passi da fare per arginare il cambiamento climatico, è stato come chiedere a un ateo di dire messa: non si poteva cominciare nel modo peggiore.

Un ulteriore aspetto di criticità ha riguardato le assenze e le presenze alla COP28: fra le assenze occorre menzionare quelle del presidente americano Joe Biden e del presidente cinese Xi Jinping, che hanno inviato due loro rappresentanti e, purtroppo, quella di Papa Francesco costretto a rinunciare per motivi di salute, un vero peccato dal momento che la sua partecipazione al vertice sarebbe stata probabilmente la più grande novità dell’agenda della COP28; per quanto riguarda, invece, le presenze, oltre ai rappresentanti dei 198 Paesi aderenti, sono stati invitati 2.456 lobbisti delle fonti fossili, quasi il quadruplo dei 638 presenti l’anno precedente alla COP27 di Sharm-el-Sheik.

Per la partecipazione di questo folto e agguerrito gruppo di persone, che in apertura della conferenza ha dichiarato l’abbandono dei combustibili fossili non è assolutamente in discussione”, e per l’assenza del Papa, la persona più carismatica e decisa a spingere verso un’azione climatica condivisa, sulla conferenza gravavano pesanti e inquietanti nuvole di tempesta.

Allora, di fronte allo scenario appena delineato, la gran parte dei partecipanti deve aver pensato che la COP28 sarebbe stata una delle peggiori e deve essere rimasta stupita dal fatto che per la prima volta nel testo finale venivano menzionati i combustibili fossili e che per la prima volta ne veniva riconosciuta la responsabilità sull’attuale collasso climatico. A questo stupore ha reagito con un applauso, che forse non è stato di consenso, ma semplicemente di sollievo, un applauso liberatorio per aver scampato il pericolo di una sconfitta totale.

Poco ha importato che nel “Global Stocktake” (bilancio globale), la tanto sperata dicitura di abbandono (phase-out) dei combustibili fossili, fosse stata sostituita da una più ambigua e non ben definita dicitura di graduale abbandono (transitioning-away) dei combustibili fossili. Nel documento, infatti, viene solo riconosciuta la necessità “di una riduzione profonda, rapida sia del consumo che della produzione di combustibili fossili in modo giusto, ordinato ed equo, in modo da raggiungere lo zero netto entro, prima, o intorno al 2050, come raccomandato dalla scienza”. Quindi, per la realizzazione di questo percorso di transizione dal punto di vista sostanziale non è stato imposto alcun obiettivo misurabile né sul piano quantitativo né su quello temporale, lasciando ciascun Paese libero di comportarsi come meglio crede. A tutto ciò Antonio Guterres, poco dopo l’approvazione del documento, ha reagito scrivendo: A coloro che si sono opposti a un chiaro riferimento alla phase-out voglio dire che, vi piaccia o no, l’uscita definitiva dalle fonti fossili è inevitabile. Speriamo non arrivi troppo tardi”.

Ovviamente, hanno partecipato all’applauso, forse con qualche ragione, i Paesi più arretrati, che dall’eliminazione dei combustibili fossili subirebbero una battuta d’arresto nel loro sviluppo, che giustamente non possono essere abbandonati a sé stessi, ma che altrettanto giustamente non possono essere lasciati liberi di inquinare a piacimento; ha applaudito convintamente la Russia, che sostiene il cartello dei petrolieri, e hanno applaudito la Cina e gli Stati Uniti che, per ragioni diverse, non vedono di buon occhio un’accelerazione nella fuoriuscita dalle energie fossili; hanno anche applaudito (speriamo solo per compiacenza) i Paesi europei, che, però, hanno perso l’ennesima occasione per giocare un ruolo trainante nell’applicazione degli accordi presi a Parigi nel 2015 (COP21).

Altrettanto ovviamente, non hanno applaudito i 44 Paesi insulari facenti parte dell’AOSIS, sui quali ricadono già oggi le maggiori conseguenze dei cambiamenti climatici e il cui Presidente, Cedric Shuster di Samoa, ha detto amaramente: “Non firmeremo il nostro certificato di morte. Non possiamo firmare un testo che non preveda impegni forti per abbandonare i combustibili fossili”.

Una cosa passata sotto silenzio in questa COP dei ricchi è, infatti, il paradosso che a pagare il prezzo più alto è proprio chi ha contribuito meno all’aumento delle temperature del pianeta: questo è il caso, appunto, delle piccole isole del Pacifico, che sono responsabili appena dello 0,03% delle emissioni di gas climalteranti, ma che potrebbero finire sott’acqua e scomparire dalla carta geografica a causa dell’innalzamento del livello del mare, dovuto al comportamento irresponsabile degli altri paesi, o come anche il caso del continente africano, al quale va imputato solo il 4% delle emissioni dei gas serra e che è perseguitato da una desertificazione galoppante, ancora una volta conseguenza dello sviluppo dei paesi ricchi divoratori di combustibili fossili. Come dicevo prima, si tratta di una forte ingiustizia che a Dubai ha faticato a trovare il giusto spazio di discussione in sede di negoziati. Qualcuno potrebbe obiettare che, però, durante il primo giorno della COP è stato approvato il fondo Loss & Damage a favore dei paesi che hanno subito perdite e danni causati dal riscaldamento climatico, ma si è trattato solo di un mettersi a posto la coscienza, perché i milioni impegnati (da pochi paesi) sono una goccia nell’oceano, insufficienti per compensare i disastri, che si moltiplicano sotto la spinta degli eventi estremi, e per fronteggiare le violazioni dei diritti umani.

E non è finita qui; se nel documento finale della COP28 mancano impegni forti per abbandonare i combustibili fossili, ci sono, invece, evidenti scappatoie per consentire ai produttori di combustili fossili e agli Stati di andare avanti come prima; si parla, infatti, di sviluppare le tecnologie per la cattura, lo stoccaggio e l’utilizzo del carbonio come fossero già consolidate e prive rischi. E, purtroppo, si parla anche di potenziare il nucleare, che viene inserito con grande spudoratezza fra le tecnologie verdi. Insomma, ancora una volta l’ipocrisia ha dominato la scena: si privilegiano le false soluzioni per mettere sotto il tappeto le emergenze che dobbiamo affrontare subito e con grande risolutezza.

Fra le tante fumate nere di questa COP l’unica bianca, o meglio grigia, è che nel documento finale compare esplicitamente la necessità di triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale e di raddoppiare la media globale del tasso annuo di efficienza energetica entro il 2030. Ho parlato di fumata grigia e non bianca, perché l’impegno è troppo debole e non sufficiente per arginare il collasso del nostro pianeta.

E allora concludo con la frase di Dan Jørgensen, ministro dell’ambiente danese, che alla COP28 ha detto: Possiamo negoziare tra noi su tutto, ma non possiamo negoziare con la natura”.

Implicitamente il ministro danese ci ricorda che le nostre azioni irresponsabili, fra le quali anche le non decisioni prese a Dubai, si ritorceranno sempre contro di noi e, purtroppo, aggiungo io, con il nostro comportamento potremmo aver già compromesso irreversibilmente quel meraviglioso luogo che ci ospita: la Terra.

E ora finalmente ti lascio alla lettura dell’ultimo numero di quest’anno della nostra rivista, augurandoti un meraviglioso 2024!


Alla prossima

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