Perché la Termodinamica è così difficile?
Mariano Venanzi
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche,
Università di Roma “Tor Vergata”, Roma (Italia)
e-mail: venanzi@uniroma2.it
Indice
Abstract: In this contribution I report on the difficulties and problems that I faced in teaching classical thermodynamics to students of the biology and applied chemistry curricula at university. I focused this report on some critical issues, that I believe are fundamental for a real comprehension of this theory, characterized by a network of formal relations between the thermodynamic potentials and their conjugated variables, and a high level of logical abstraction.
Keywords: sistema-ambiente; equilibrio; equazioni di stato; lavoro-calore; reversibilità-irreversibilità; trasposizione didattica
Scrivo queste brevi note senza pretesa alcuna di scientificità, solo sulla base dell’esperienza che ho accumulato insegnando per diversi anni Chimica Fisica nei corsi di laurea in Chimica Applicata (II anno, I semestre) e Biologia Cellulare e Molecolare (I anno, II semestre) della mia università. Attualmente sono titolare di un corso di Chimica Fisica Biologica all’interno di una laurea magistrale in area biologica, che rappresenta, anche questo, un osservatorio particolare, non esistendo più da alcuni anni un corso di Chimica Fisica di base alla triennale di provenienza. Nel prosieguo tenterò di rispondere alla domanda del titolo di questo contributo, riferendomi esclusivamente alla termodinamica classica, argomento di studio dei corsi dei primi anni universitari e focalizzando il discorso su alcuni punti che ritengo critici nell’insegnamento/apprendimento della termodinamica. In particolare, descriverò le difficoltà maggiori che ho incontrato come docente nell’insegnamento di questa teoria e che ho riscontrato nei miei sfortunati studenti (vorrei rassicurare il lettore: attualmente il mio insegnamento principale è un corso di spettroscopia molecolare che tengo con molta più tranquillità e soddisfazione).
Come commento generale, quasi una conclusione in realtà, ritengo che la difficoltà maggiore nell’apprendimento della termodinamica nasca dal suo carattere formale e dal suo notevole livello di astrazione. La Termodinamica ha come oggetto funzioni macroscopiche come l’energia libera, l’entalpia, l’energia interna, che descrivono le proprietà macroscopiche di un sistema senza, in linea di principio, nessun riferimento alle sue proprietà microscopiche e molecolari. Non a caso, né l’apparato formale della Termodinamica, né le sue conclusioni generali sono state scalfite dalla rivoluzione quantistica di inizio Novecento. La logica di questa teoria è stringente e le relazioni formali tra le funzioni e le grandezze di cui fa uso del tutto inattaccabili. Basti pensare come le trasformazioni di Legendre correlino queste grandezze e definiscano formalmente i passaggi da un ambiente pressione/temperatura a un ambiente volume/temperatura. Ricordo ancora il mio stupore di studente di dottorato quando, aprendo “Meccanica statistica” di Reichl [1], appresi che tutte le funzioni termodinamiche potevano essere trattate come potenziali termodinamici e quale poteva essere la funzione più adatta una volta selezionate le variabili coniugate naturali.
La difficoltà del docente è che nella spiegazione spesso ricorre a modelli corpuscolari, mescolando continuamente i piani di descrizione microscopico e macroscopico. Un ponte che solo negli anni successivi l’apparato formale della meccanica statistica sarà in grado di costruire con il necessario rigore. Quanto più semplice è la definizione di temperatura a partire dalla teoria cinetica dei gas, piuttosto che ricorrere a una definizione operativa basata sul teorema zero della Termodinamica (altro punto fondamentale che di solito viene enunciato distrattamente nei corsi di base e che, invece, è assolutamente necessario per una trattazione logicamente fondata su basi operative della Termodinamica) [2]. Commenterei che non è un caso che la Termodinamica classica sia il prodotto diretto di un ambiente culturale egemonizzato dalla filosofia tedesca ottocentesca.
2.1 Sistema/ambiente
Distinguere (e separare) il sistema dall’ambiente è il punto di partenza di qualsiasi ragionamento termodinamico. È una cosa fondamentale per molte ragioni, non ultima quella che l’ambiente è un sistema particolare che mantiene la sua temperatura costante qualunque sia l’entità degli scambi di calore tra sistema e ambiente. Il che per l’ambiente rende il calore scambiato un calore reversibile, anche nel caso in cui per il sistema rappresenti un calore irreversibile.
Aggiungo che i miei studenti di Biologia sono esposti nel loro cursus studiorum solo alla Termodinamica di sistemi chiusi. Peccato che le loro cellule siano dei reattori termodinamici in cui continuamente viene scambiata energia e materia. Per non parlare del fatto, che i sistemi biologici, per loro e nostra fortuna, sono tutti sistemi non all’equilibrio. Lo stesso nostro pianeta può essere considerato un sistema in stato stazionario che ha sullo sfondo il processo grandioso e irreversibile del raffreddamento del Sole.
Qualcuno ricorderà che alcune edizioni del testo di Chimica Fisica di Atkins [3], il più popolare tra i testi di Chimica Fisica, dividevano gli esercizi alla fine di ogni capitolo, in esercizi e problemi. Gli esercizi erano una semplice applicazione delle equazioni appena introdotte, mentre i problemi erano costruiti su una scala di difficoltà maggiore. Confesso che alcuni di loro mi hanno dato filo da torcere, proprio perché non era chiara la distinzione tra sistema e ambiente, o almeno come avvenissero i processi di scambio energetico tra i due. In alcuni casi, sono dovuto ricorrere all’edizione inglese per capire effettivamente come stavano le cose (il che ci dice qualcosa anche sul rigore necessario che dovrebbe avere il nostro linguaggio nell’insegnamento della Termodinamica).
2.2 Equilibrio
Qui c’è relativamente poco da commentare. Lo scoglio cognitivo è la piena comprensione del fatto che l’equilibrio nei processi chimici è sempre un equilibrio di tipo dinamico. Questo, però, è un altro punto in cui rientra in gioco il rapporto tra microscopico e macroscopico. Di nuovo, credo, che il concetto di equilibrio dinamico sia molto più comprensibile dal punto di vista microscopico, adottando un modello corpuscolare, mentre può rivelare aspetti più complessi dal punto di vista macroscopico (quante volte mi sono sentito rispondere da studenti di biologia che all’equilibrio le concentrazioni dei reagenti erano uguali a quelle dei prodotti). Un altro aspetto che rivela alcune criticità è che spesso si ricorre ad argomentazioni cinetiche proprio per sottolineare le proprietà dinamiche dell’equilibrio chimico. È qui che si incrociano in maniera non banale i concetti di reversibilità/irreversibilità dei processi.
2.3 Equazioni di stato
Non è sempre ovvio mettere insieme funzioni e variabili di stato. E anche l’equazione di stato dei gas ideali, a pensarci, è un po’ strana come equazione. Dentro ci sono la pressione e la temperatura del gas, mentre il volume è quello della scatola che lo contiene. Di nuovo, dal punto di vista didattico è molto utile una derivazione microscopica basata sulla teoria cinetica, mentre per la definizione termodinamica sembra più prudente restare sul piano della loro definizione operativa. Una raccomandazione: non sottovalutare la definizione di temperatura termodinamica assoluta. La legge di Charles a questo scopo è preziosa, ma resta da spiegare perché scegliere il punto triplo dell’acqua come altra temperatura di riferimento e perché questa sia una grandezza invariante.
2.4 Lavoro/calore
Nella maggior parte dei testi viene data particolare enfasi al lavoro meccanico e pressoché tutte le equazioni termodinamiche vengono definite introducendo esclusivamente il lavoro di tipo pV (ad esempio, H = U + pV). La necessità di trattare fenomeni elettrochimici spinge in seguito a introdurre il lavoro elettrico. Raramente vengono discussi altri tipi di lavoro. È una limitazione grave della trattazione, che inibisce la descrizione di sistemi termodinamici complessi [4]. C’è poi una difficoltà specifica legata alla natura di funzione di percorso del lavoro, che richiederebbe una comprensione non superficiale del significato matematico dell’integrale curvilineo e di come questo differisca dagli integrali che sono bagaglio della conoscenza dello studente. Nei testi canonici la maggior parte degli esercizi proposti sono formulati in modo da tenere in ombra questo aspetto, che è però intrinseco alla definizione e alla natura della grandezza lavoro. Mi divertivo durante le lezioni a elencare le approssimazioni e le strette condizioni che regolano un esercizio apparentemente semplice come quello del calcolo del lavoro di una espansione isoterma reversibile di un gas ideale.
Per il calore, anche questa una funzione di processo, è non eludibile la distinzione tra le varie modalità di trasferire calore, in primis la distinzione tra capacità termiche a volume o pressione costante. Anche qui, la profondità del principio di equivalenza meccanica del calore, riassunta nella semplice uguaglianza 1 caloria = 4,184 Joule, non andrebbe sottovalutata. Se non altro per rispetto ai poveri artiglieri di Sadi Carnot.
2.5 Reversibilità/irreversibilità
Questo è forse il punto centrale del nostro discorso. In esso, infatti, si intrecciano e si scontrano le difficoltà cognitive della Termodinamica: il rapporto micro/macro, il concetto di equilibrio chimico, il principio di reversibilità microscopica e di equiprobabilità a priori degli stati, il significato delle funzioni termodinamiche standard, la distinzione tra proprietà dell’ambiente e del sistema, la definizione termodinamica di entropia, il significato profondo del primo e del secondo principio della Termodinamica. Anche qui la matematica aiuta, o diventa al contrario un problema, se non sono ben compresi i concetti di differenziale esatto, di variazioni infinitesime e finite, del concetto di limite. Mi fermo qui perché dovremmo addentrarci nella querelle infinita legata al teorema ergodico.
2.6 Termochimica/Stati standard
Confesso la mia idiosincrasia per questa parte della Termodinamica. Da studente, in maniera piuttosto arrogante direi, mi sembrava solo un infinito commento alla legge di Hess, o come mi esprimevo allora “roba da ingegneri”. Solo più tardi ho capito che da un punto di vista applicativo rappresenta la parte più utile del programma e non solo: saper scrivere un’equazione chimica, specificare le condizioni di temperatura e pressione, specificare la fase di ogni composto nelle condizioni date, è un esercizio chimico di primo ordine, che abitua lo studente alla precisione e a chiedersi per ogni tipo di reazione quale sia la composizione del sistema, il tipo di processo in esame, quali gli agenti in gioco. Se è vero che gli stati standard chimici e biochimici differiscono di poco per quanto riguarda la temperatura (usualmente 298 K per i chimici, 310 K per i biochimici), la differenza nello stato di riferimento di pH porta a differenze drammatiche nei due casi: attività unitaria dello ione H+ per i chimici e quindi pH = 0; pH = 7 per i biochimici (condizioni fisiologiche) e, quindi, a(H+) = 10–7.
2.7 Entropia
L’introduzione della funzione entropia è l’esempio più chiaro della complessità della Termodinamica classica. Se si confrontano le definizioni termodinamica (equazione 1) e statistica (equazione 2) dell’entropia se ne coglie immediatamente la differente chiarezza ed economicità.
Innanzitutto, la definizione termodinamica, alla quale si giunge tipicamente introducendo un ciclo di Carnot, fornisce solo una definizione della variazione di entropia, mentre la definizione statistica ne determina il valore assoluto. In più, la definizione termodinamica fa esplicito riferimento a un calore scambiato reversibilmente, il che deve essere tenuto in debita considerazione nel calcolo di questa grandezza. Questo è fonte di grande confusione negli studenti, allorché si mette in rilievo che, essendo l’entropia una funzione di stato, la sua variazione non dipende dal fatto che il processo avvenga in maniera reversibile o irreversibile, eppure il suo calcolo richiede necessariamente di prendere in considerazione un processo reversibile.
Nell’esame scritto che precedeva l’ammissione all’orale finale, esisteva un metodo infallibile per fare selezione e abbassare la media dei voti. Bastava dare un esercizio basato su un processo irreversibile in cui si chiedeva di calcolare l’entropia del sistema e dell’ambiente. Per il calcolo dell’entropia del sistema bisognava immaginarsi un processo reversibile che portasse allo stesso stato finale, mentre per il calcolo dell’entropia dell’ambiente si doveva usare il calore irreversibile scambiato tra sistema e ambiente (equazione 3).
È anche indubbia, a mio parere, la maggiore semplicità e chiarezza della introduzione del terzo principio basata sulla formulazione statistica dell’entropia, mentre l’introduzione per via termodinamica è fonte di qualche stordimento mentale, legata come è a cicli di raffreddamento adiabatici. Non a caso nelle tabelle che riportano le proprietà termodinamiche di sostanze e processi chimici compaiono le variazioni di entalpia e di energia libera standard, mentre l’entropia standard è riportata in valore assoluto (entropia da terzo principio).
Per inciso, nelle mie lezioni di Chimica Fisica Biologica della magistrale di area biologica, sono costretto immancabilmente ad aprire un sipario dedicato all’equazione di Boltzmann, nel tentativo estremo di riempire di un qualche significato la visione ingenua e banalizzante dell’entropia come “misura del disordine”. A maggior ragione, in un corso di ambito biologico, in cui si parla di strutture di biopolimeri, di processi di associazione ligando-substrato, di dinamiche di folding. Il nostro metabolismo sintetizza in pochi minuti proteine complesse a partire dai singoli amminoacidi, che poi trovano in tempi altrettanto rapidi la loro conformazione nativa (pressoché unica). E come la mettiamo con l’entropia che aumenta sempre?
Per i lettori amanti delle sottigliezze, suggerisco di riflettere sul problema (falsamente) semplice del calcolo dell’entropia di mescolamento di due gas ideali [5].
2.8 Energia libera di Gibbs
L’energia libera di Gibbs è la funzione di elezione per la descrizione di processi chimici e biologici. Il ruolo delle variabili coniugate temperatura e pressione è cruciale per la scelta della funzione di Gibbs, poiché in una reazione chimica o biochimica che si svolga in soluzione, queste variabili sono facilmente controllabili.
Molto più difficile è controllare variazioni di volume, in particolare quando nella reazione si sviluppano o si consumano specie gassose. Il significato di questa funzione è nella valutazione complessiva dei contributi legati alle interazioni che si stabiliscono tra i componenti del sistema (entalpici) e quelli derivanti dalla loro organizzazione (entropici), spesso in competizione tra loro. È, quindi, una funzione complessa, che richiede la comprensione delle proprietà del sistema nella sua globalità. Concentrati sulla chimica di reagenti e prodotti, molti studenti tendono a sottovalutare gli effetti di solvatazione o, più semplicemente, il mezzo in cui avviene la reazione.
Il punto dolente, specie per gli studenti di biologia, è apprezzare la differenza tra la variazione della energia libera di Gibbs e la variazione dell’energia libera di Gibbs in condizioni standard. Mentre ΔG ha una direzione precisa (< 0 per processi spontanei, nullo all’equilibrio), ΔG° può assumere tutti i valori da positivi a negativi, passando per lo zero in un unico punto caratteristico, legato tipicamente alla temperatura di transizione del processo in esame.
È stata sicuramente una scelta infelice quella compiuta dal coordinamento dei corsi di laurea in biologia di limitare a 15 CFU gli insegnamenti chimici nella laurea triennale. Questo ha comportato praticamente ovunque la scelta di limitare i corsi propriamente chimici a un corso di Chimica Generale, di solito impartito al I anno, I semestre, e un corso di Chimica Organica (I anno, II semestre). I colleghi chimici, davanti al compito di introdurre tutta la chimica in così poco spazio, non hanno certo il tempo di illustrare con la dovuta attenzione questi aspetti. Né si può chiedere al collega di fisica, che in un unico corso deve affrontare tutta la fisica classica, un’attenzione a questi (presunti) dettagli.
La Termodinamica in soluzione, così importante per i processi biologici, è sostanzialmente scomparsa dall’insegnamento nelle lauree triennali di area biologica, né è pensabile che questi argomenti possano essere ripresi in un corso della laurea magistrale.
2.9 Potenziale chimico
Ci si chiede spesso quanto le complicazioni matematiche abbiano il potere di inibire la comprensione di alcuni concetti che necessitano di un formalismo non immediato: il potenziale chimico è uno di questi. La complicazione matematica spesso è il riflesso della complessità del sistema. Passando dal comportamento di sistemi ideali ai sistemi reali, la descrizione del sistema diventa ovviamente più complessa (basti pensare a un problema relativamente semplice come il calcolo teorico dei coefficienti del viriale in un gas reale). Ha senso introdurre il potenziale chimico quando si è in presenza di più componenti e il riflesso formale di questa situazione fisica è la necessità di introdurre lo strumento della derivazione parziale delle grandezze. Chi garantisce che è possibile descrivere il comportamento di un sistema analizzando la sua risposta rispetto alla variazione di una variabile, mantenendo costanti tutte le altre? L’operazione, e anche il concetto, non è ovvia, considerato che non è vero per tutte le grandezze, ma solo per quelle la cui variazione può essere espressa da un differenziale totale. E qui torniamo ai potenziali termodinamici del testo di Reichl “[1]” e alle variabili coniugate. Quello che tipicamente trascuravano molti dei miei studenti è il pedice che sta alla base di una derivata parziale. Non è la stessa cosa far variare la concentrazione di una sostanza, tenendo costante la forza ionica o il pH della soluzione. E anche qui, il punctum dolens, sono le condizioni standard, una scelta a volte non ovvia, e che può cambiare quando si analizzano processi che hanno luogo in condizioni sperimentali diverse.
2.10 Soluzioni
Il problema dell’identificazione degli stati standard è ben evidente quando si affronta lo studio della Termodinamica delle soluzioni. La prima difficoltà è la definizione di un sistema ideale di riferimento. La soluzione ideale, definita come una soluzione in cui le interazioni tra i diversi componenti siano uguali, è inutilizzabile, poiché questa assunzione è valida solo per un paio di esempi (benzene/toluene è uno), per i quali questa situazione ideale sia vicina al comportamento reale. Si deve, quindi, ricorrere al modello soluzione diluita ideale, con la conseguente necessità di introdurre la legge di Raoult, la legge di Henry e le condizioni standard differenti per solvente e soluto (la seconda addirittura non fisica). Questi sono dettagli che diventano importanti quando si introduce il concetto di attività. Il punto diventa ancora più delicato quando si trattano soluzioni elettrolitiche e diventa impossibile trattare indipendentemente le proprietà termodinamiche di cationi e anioni, fino a definire coefficienti di attività e attività medi a partire dai coefficienti di attività e attività dei singoli ioni. Prova ne sia la limitatezza della legge di Debye-Hückel nel descrivere le proprietà termodinamiche di soluzioni elettrolitiche.
2.11 Attività
Ho sempre ritenuto sorprendente il rapporto tra lo spazio dedicato alle varie definizioni di concentrazione e quello dedicato alle attività. Prima di tutto perché quando prendiamo in esame un sistema reale non possiamo in linea di principio che considerare le attività e, secondo, perché la grandezza concentrazione è un affare da ragionieri (basta saper contare le molecole), mentre l’attività è questione da chimici. Giudico la concentrazione, comunque la si esprima, una grandezza concettualmente povera (peso qualche grammo, divido per la massa molare, aggiungo un litro di solvente, et voilà), mentre l’attività contiene la chimica vera, le interazioni tra le sostanze che compongono il sistema. Cosa vuol dire che prendo l’attività di un solido puro unitaria? Vale anche quando le dimensioni del solido diventano nanometriche e le proprietà di superficie non sono più trascurabili rispetto alla massa del solido? E cosa vuol dire considerare unitaria l’attività del solvente? È da notare la misteriosa raccomandazione del libro di testo che usavo da studente: “purché non entri direttamente nella reazione”. La domanda ovviamente era: ma perché un solvente non dovrebbe entrare nella reazione se è il mezzo in cui questa avviene?
2.12 Il potenziale elettrochimico
Si tratta finalmente di un potenziale che tiene conto non solo delle concentrazioni delle sostanze, ma prende in esplicita considerazione il fatto che sono anche cariche. Va messo in evidenza il carattere sistemico di questa funzione, che dipende dall’attività del singolo ione e dal potenziale elettrostatico dell’intera fase. In molti testi di chimica generale e di chimica-fisica di base, mi pare di avvertire una certa reticenza a utilizzare il potenziale elettrochimico per descrivere i fenomeni elettrochimici. Non riesco a immaginare come si riesca a parlare di potenziali di membrana o effetto Donnan senza passare dal potenziale elettrochimico.
2.13 La costante di equilibrio
Nonostante la sua apparente semplicità la relazione
contiene una quantità notevole di informazioni e può generare altrettante incomprensioni.
Prima di tutto, banalmente, è un’equazione che vale all’equilibrio (ΔG = 0) in condizioni di temperatura e pressione costanti (costanti, ma non casuali; in realtà sono i valori che definiscono le condizioni standard che prendiamo come riferimento per un determinato processo). E poi, sempre per sfiorare la banalità, le attività che compaiono nella costante di equilibrio sono proprio le attività all’equilibrio, non altre. Inoltre, ci dice che la costante di equilibrio termodinamica deve essere adimensionale, visto che energia libera standard e RT hanno le stesse dimensioni.
Il fatto che la costante di equilibrio sia legata alla variazione dell’energia libera standard ci riporta all’onnipresente questione delle condizioni standard. Ho già accennato al fatto che la differente scelta delle condizioni standard di pH tra chimici (pH = 0) e biochimici (pH = 7) comporta una differenza di un fattore 107 nel valore della costante di equilibrio, e, di conseguenza, una differenza di 16,12 RT per ogni mole di H+ scambiata. La differenza, inoltre, cambia di segno se lo ione H+ viene consumato o prodotto durante la reazione. Poiché la convenzione per tutte le altre sostanze è la stessa per chimici e biochimici (attività unitaria per la sostanza pura), per aumentare la confusione, le costanti di equilibrio e i valori delle energie libere standard di reazione sono le stesse per tutte le reazioni che non coinvolgono lo ione H+.
Ma a ben guardare, c’è una cosa più importante che ci dice l’equazione 4 e, cioè, che tutte le reazioni chimiche sono reazioni di equilibrio. Per una cosiddetta reazione completa non posso scrivere una costante di equilibrio, o meglio, tutte le reazioni complete avrebbero la stessa costante di equilibrio infinita (questa affermazione mi è costata quattro ore di accesa discussione in un master di formazione di docenti della scuola secondaria in servizio). La cosa particolarmente esecrabile è che nella maggior parte dei testi della scuola secondaria, non solo le reazioni di equilibrio sono trattate come un caso particolare delle reazioni chimiche, ma gli esempi che vengono forniti, immagino per coerenza, sono per la maggior parte reazioni la cui costante di equilibrio è fortemente spostata verso i prodotti. Questo è il risultato di aver messo la Termodinamica all’indice nei programmi della scuola secondaria [6].
Non ho particolari conclusioni da offrire né ricette facili da applicare. Mi sento di avanzare un suggerimento, a costo di ripetermi. Poiché la Termodinamica classica è una teoria ‘macro’, mentre le nostre spiegazioni tendono a riferirsi spesso a modelli corpuscolari, suggerirei un’attenzione particolare a governare i diversi piani del discorso. Non tutti gli studenti hanno introiettato in maniera matura il significato di modello e come questo si rapporta con le osservabili fisiche, né con i diversi livelli della teoria.
E poi ci deve essere un’attenzione particolare alle variabili che si scelgono come “variabili privilegiate”. Non è un caso che da chimici sperimentali preferiamo lavorare con l’energia libera di Gibbs, scegliendo quindi temperatura e pressione come grandezze facilmente controllabili, mentre quando ci addentriamo nella descrizione statistica dei sistemi temperatura e volume e, quindi, l’energia libera di Helmholtz, sono certamente più appropriate. In ogni caso, anche in un corso elementare, dedicherei qualche tempo e attenzione alla definizione statistica dell’entropia. Il consiglio vero è che, quando ci si addentra sulle strade ghiacciate della Termodinamica, è prudente montare i pneumatici da neve.
Temo di aver annoiato il lettore. Del resto, è un rischio abituale e molto frequentato, quando si parla di Termodinamica. In uno dei miei racconti gialli preferiti, Philip Marlowe è seduto al bancone di un bar e si chiede quante bugie ci siano nel cartello appeso di fronte a lui: “Qui si servono solo whisky scozzesi invecchiati”. La stessa sfida rivolgo al lettore: quanti errori ci sono in questo articolo?
1 L. E. Reichl, A Modern Course in Statistical Physics, Edward Arnold Publ., London, UK 1980.
2 A. B. Pippard, Elements of Classical Thermodynamics: for Advanced Students of Physics, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 1964.
3 P. Atkins, J. de Paula, J. Keller, Chimica Fisica, Zanichelli, Bologna, 2020.
4 V. V. Sycev, Sistemi Termodinamici complessi, Editori Riuniti, Roma, 1985.
5 A. Ben-Naim, A Farewell to Entropy: Statistical Thermodynamics Based on Information, World Scientific Publ., Singapore, 2008.
6 H. A. Bent, Should Thermodynamics be X-Rated? J. Chem. Ed., 1985, 62, 228.